2 Novembre 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

RISARCIMENTO DEL DANNO DA 6 A 12 MENSILITA’ SE LA SANZIONE VIENE APPLICATA PRIMA DEI 5 GIORNI DALLA CONTESTAZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 18136 DEL 31 AGOSTO 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 18136 del 31 agosto 2020, ha statuito che l’irrogazione della sanzione del licenziamento prima che sia decorso il termine di 5 giorni, previsto dall’art. 7 della L. 300/770, integra una violazione di tipo procedurale le cui conseguenze sono previste dal comma 6 dell’art. 18 dello Statuto, non sussistendo alcuna lesione delle esigenze difensive del lavoratore in vista del processo.

Ecco i fatti.

Un lavoratore riceveva il 1° agosto 2016 lettera di contestazione a fronte della condotta tenuta il 27 luglio 2016 consistente nell'aver spostato una macchina fresatrice, senza smontarla preventivamente, danneggiando il pavimento industriale, e l'aver abbandonato subito il servizio, senza giustificazioni, di fronte agli immediati rilievi del datore di lavoro.

Il Tribunale, nella sua articolazione fibasica, rigettava il ricorso avverso il licenziamento per giusta causa irrogato dal datore con comunicazione consegnata il 5 agosto 2016.

La Corte di Appello, pur confermando il decisum del primo grado, condannava il datore al pagamento di una indennità risarcitoria pari a sei mensilità della retribuzione globale di fatto, ex art 18 comma 6 della legge 300/70, stante la violazione del termine dei 5 giorni fra la consegna della contestazione e l’irrogazione della sanzione.

Il lavoratore, fra i tanti temi del ricorso, si duoleva dell'operato della Corte che, pur riscontrando la violazione del termine a difesa, ne avrebbe fatto discendere soltanto la tutela indennitaria al minimo, sul rilievo che un termine a difesa (sia pure di 4 giorni) fosse stato concesso ed in base ad una valutazione generale della vicenda.

Gli Ermellini hanno richiamato quanto da tempo l’organo nomofilattico ha affermato laddove sia disattesa la regola della necessaria audizione del lavoratore che ne abbia fatto richiesta, principio in base al quale “in tema di licenziamento disciplinare, la violazione dell'obbligo del datore lavoro di sentire preventivamente il lavoratore a discolpa, quale presupposto dell'eventuale provvedimento di recesso, integra una violazione della procedura di cui all'art. 7 st. lav. e rende operativa la tutela prevista dal successivo art. 18, comma 6, quale modificato dalla L. n. 90 del 2012" (sentenze  31 luglio 2015, n. 16265 e 7 dicembre 2016, n. 25189).

Inoltre, i Giudici di piazza Cavour hanno richiamato anche la sentenza 17 dicembre 2018. n. 32607, in base alla quale "all'ipotesi della mancata audizione del lavoratore è equiparata quella in cui si consideri erroneamente tardive, in quanto in realtà tempestive, le giustificazioni scritte rese dal lavoratore medesimo”.

Pertanto, nel confermare la sentenza della Corte distrettuale, hanno concluso che, in tale contesto normativo, appaiono condivisibili le valutazioni operate dalla Corte che ha correttamente interpretato la disposizione dell'art. 18, comma 6 cit. anche nel ridurre al minimo l'indennità, così valorizzando il tenore letterale della norma che opera un chiaro riferimento alla gravità della violazione formale, nel caso di specie motivatamente esclusa.

 

NEL PROCEDIMENTO DISCIPLINARE EX ART. 7 LEGGE 300/70 LA SCELTA DEI MODI E DELLE FORME ATTRAVERSO LE QUALI ESERCITARE LE DIFESE E' RIMESSA ESCLUSIVAMENTE AL LAVORATORE DIPENDENTE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 19846 DEL 22 SETTEMBRE 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 19846 del 22 settembre 2020, ha confermato, in tema di procedimento disciplinare, che il lavoratore, dopo avere presentato giustificazioni scritte, senza formulare alcuna richiesta di audizione orale, possa avanzare tale richiesta anche successivamente.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Perugia, in parziale riforma della decisione di primo grado, dichiarava legittima la sanzione disciplinare che parte datoriale aveva irrogato ad un lavoratore all'esito di un procedimento ex art. 7, Legge n°300/70. In particolare, la Corte territoriale riteneva che, nonostante il lavoratore, dopo la presentazione di difese scritte, avesse formulato richiesta di audizione orale nel rispetto del termine di cinque giorni, il datore di lavoro, poteva legittimamente non dare corso a tale richiesta di audizione e applicare la sanzione disciplinare.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il lavoratore e la parte datoriale ha resistito con tempestivo controricorso e ricorso incidentale, sostenendo che, in base alla disciplina di riferimento, la richiesta di audizione personale, per poter impegnare la datrice di lavoro, doveva essere effettuata contestualmente alla presentazione delle giustificazioni scritte. 

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso ricordando che la L. n°300/70, art. 7, comma 2, vieta al datore di lavoro di applicare sanzioni disciplinari al lavoratore senza una previa contestazione scritta e senza "averlo sentito a sua difesa"; il successivo comma 5 precisa inoltre che, il provvedimento disciplinare più grave del rimprovero verbale non può intervenire "prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa".

Quanto al tema delle modalità di articolazione del diritto di difesa del lavoratore in presenza di contestazione di addebito e su come l'esercizio di tale diritto interferisca con il termine di cinque giorni di cui al richiamato comma 5 in relazione alla possibile preclusione per la parte datoriale all'adozione del provvedimento disciplinare, hanno continuato gli Ermellini, arresti, ormai consolidati, hanno escluso che la richiesta di audizione orale formulata dal lavoratore che aveva presentato giustificazioni scritte, potesse essere sindacata dalla parte datoriale sotto il profilo della sua rispondenza ad effettive esigenze difensive.

Inoltre, gli Ermellini hanno altresì evidenziato la recente pronunzia della Corte (Cfr. Cass. 12/11/2015 n° 23140) la quale, ha escluso che il decorso del termine di cinque giorni dalla contestazione concesso al lavoratore, per la esplicitazione delle proprie difese, determini la decadenza dalla facoltà per il lavoratore di chiedere l'audizione a difesa ed ha ritenuto illegittima la sanzione disciplinare comminata dal datore di lavoro ignorando la richiesta presentata oltre detto termine ma prima dell'adozione del provvedimento disciplinare. 

Pertanto, hanno concluso gli Ermellini, al lavoratore deve essere riconosciuta la possibilità di piena esplicazione del diritto di difesa e, quindi, anche la possibilità, dopo avere presentato giustificazioni scritte senza formulare alcuna richiesta di audizione orale, di maturare "un ripensamento" circa la maggiore adeguatezza difensiva della rappresentazione (anche) orale degli elementi di discolpa. Al datore di lavoro è perciò precluso ogni sindacato, anche sotto il profilo della conformità e correttezza a buona fede, della condotta del dipendente con riferimento alla necessità o opportunità della richiesta di integrazione difensiva essendo la relativa valutazione rimessa in via esclusiva al lavoratore.

 

ANCHE LE IMPRESE IN LIQUIDAZIONE VOLONTARIA DEVONO PAGARE IL DIRITTO ANNUALE ALLA CAMERA DI COMMERCIO COMPETENTE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 11214 DEL’11 GIUGNO 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 11214 dell’11 giugno 2020, ha statuito che anche le imprese in liquidazione volontaria, che non svolgono, né hanno svolto, alcuna attività negli anni d'imposta richiesti, devono pagare il diritto annuale alla Camera di Commercio competente, in quanto, a differenza del fallimento o della liquidazione coatta amministrativa, la messa in liquidazione della società non ne determina l'immediata estinzione, ma lascia la società stessa nella disponibilità dei soci, durante lo stato di liquidazione.

Il caso di specie riguarda un contenzioso acceso da una società di persone che ha contestato alla Camera di Commercio di Padova l'obbligo di pagamento del tributo camerale per gli anni 2009 e 2010, motivando il rifiuto di versare il tributo con il fatto di trovarsi in liquidazione e di non aver svolto alcun tipo di attività, né riscosso alcun credito e, quindi, secondo la società il canone di iscrizione non era dovuto così come accade per le società in stato di fallimento o in liquidazione coatta amministrativa.

Ex adverso, i Giudici di piazza Cavour, con l’ordinanza de qua, hanno riconosciuto l'obbligatorietà da parte delle società di persone in liquidazione volontaria di versare il diritto annuo d'iscrizione al Registro Imprese, confermando in toto le sentenze dei precedenti gradi di giudizio.

Inoltre, gli Ermellini hanno dichiarato manifestamente infondata la questione di costituzionalità mossa dalla società, affermando che il presupposto del pagamento del diritto annuale delle imprese è l'iscrizione e l'annotazione nel Registro Imprese, indipendentemente dallo stato dell'attività o dalla messa in scioglimento e liquidazione o meno dell'impresa, ai sensi e per gli effetti dell'art. 4 del DM n. 359 del 2001.

In nuce, per la S.C. l'estinzione contemplata dall'art. 4 del DM n. 359 del 2001 si giustifica in quanto sia il fallimento che la liquidazione coatta amministrativa configurano vicende estintive della società, che non sussistono nella società in liquidazione, posto che lo stato di liquidazione resta comunque nella disponibilità dei soci.

 

COMPETENTE IL GIUDICE DEL LUOGO IN CUI È SITUATA LA DIPENDENZA CUI ERA ADDETTO IL LAVORATORE SOLO SE LA DOMANDA È PROPOSTA NEL TERMINE DI SEI MESI DALLA CESSAZIONE O TRASFERIMENTO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 21648 DELL’8 OTTOBRE 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 21648 dell’8 ottobre 2020, ha stabilito che, nelle controversie di lavoro, al fine della determinazione della competenza territoriale ex art.413 c.p.c., il criterio del luogo della azienda o della dipendenza cui è addetto il lavoratore ha carattere temporaneo nel senso che, in caso di cessazione o di trasferimento dell'azienda o della dipendenza, detto criterio opera a condizione che la domanda venga proposta entro i successivi sei mesi mentre ha carattere duraturo il concorrente criterio del luogo in cui il rapporto è sorto, con la conseguenza che, decorso tale semestre, la domanda va necessariamente proposta davanti al giudice individuabile attraverso quest'ultimo criterio, la cui perdurante operatività preclude il ricorso ai criteri dei fori generali di cui all’art 18 c.p.c previsto dall'art. 413, comma 4, soltanto in via sussidiaria.

Nel caso in esame, infatti, il Tribunale di Catania affermava la propria competenza territoriale rigettando l’eccezione di incompetenza per territorio del Giudice adito, proposta dall’azienda datrice di lavoro in opposizione al giudizio promosso da un dipendente per il riconoscimento delle differenze retributive maturate.  L’azienda, infatti, sosteneva che la dipendenza cui era addetto il lavoratore e che risultava essere di competenza del Tribunale adito, aveva cessato la propria attività oltre sei mesi prima del deposito del ricorso e, pertanto, doveva ritenersi competente non più il foro del luogo ove la stessa era situata ma il Tribunale del luogo della sede legale.

La società datrice, avverso tale decisione, proponeva, quindi, il regolamento di competenza innanzi la Suprema Corte.

Secondo quanto previsto dall’art. 413 c.p.c. è territorialmente competente il Giudice nella cui circoscrizione è sorto il rapporto ovvero si trova l'azienda o una sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto. Tale competenza permane dopo il trasferimento dell'azienda o la cessazione di essa o della sua dipendenza, purché la domanda sia proposta entro sei mesi dal trasferimento o dalla cessazione.

Il criterio alternativo previsto dal richiamato art. 413 c.p.c. è dunque pienamente valido sia in caso di cessazione sia in caso di trasferimento dell’azienda, purché la domanda introduttiva venga proposta entro il limite temporale di sei mesi dalla cessazione o dal trasferimento.

Nell'ambito della cessione d'azienda, la Corte evidenzia che, pur menzionandosi unicamente la cessazione e il trasferimento dell'azienda, la fattispecie può estendersi a tutte le situazioni di trasferimento d'azienda, essendo la formulazione dell’art. 2112 c.c. idonea a comprendere ogni ipotesi di trasferimento del complesso aziendale, sempre che vi sia un nesso di derivazione giuridica, a qualsiasi titolo e a prescindere dallo schema giuridico utilizzato, tra l'alienante e l'acquirente. Il ricorso introduttivo del lavoratore era stato presentato quasi due anni dopo la cessione della dipendenza ove egli prestava la propria opera e, pertanto, ben oltre il termine dei sei mesi previsto dall’articolo di riferimento.

I Giudici della Suprema Corte affermavano, dunque, che la domanda era stata proposta oltre il termine semestrale previsto dall’art. 413 c.p.c.  e pertanto, riguardo alla temporaneità del criterio di concorrenza del luogo ove si svolgeva la prestazione, trovava applicazione il principio di diritto secondo il quale “nelle controversie di lavoro, al fine della determinazione della competenza territoriale ex art.413 c.p.c., il criterio del luogo della azienda o della dipendenza cui è addetto il lavoratore ha carattere temporaneo nel senso che, in caso di cessazione o di trasferimento dell'azienda o della dipendenza, detto criterio opera a condizione che la domanda venga proposta entro i successivi sei mesi” permanendo invece cristallizzata la competenza del Giudice circa il luogo in cui il rapporto di lavoro sorge.

In conclusione, la Corte accoglieva il regolamento di competenza proposto, annullava l'ordinanza impugnata e affermava la competenza del Tribunale del luogo ove la società datrice ha la sede legale.

 

ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO INTIMATO PER L’APPLICAZIONE DI SCONTI DA PARTE DEL LAVORATORE DIPENDENTE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 22074 DEL 13 OTTOBRE 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n. 22074 del 13 ottobre 2020, ha statuito l’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore in seguito all’applicazione di sconti a clienti ritenuti di riguardo.

Nella fattispecie il dipendente, responsabile di uno dei punti vendita del datore di lavoro, adiva il Tribunale per impugnare il licenziamento intimato da quest’ultimo in seguito all’accertamento della vendita di prodotti ad un prezzo inferiore rispetto a quello generalmente applicato al pubblico, avvenuta in diverse occasioni nei confronti di un cliente abituale, senza aver preventivamente richiesto alcuna autorizzazione.
Soccombente in entrambi i gradi di giudizio, il datore di lavoro ricorreva dunque in Cassazione.
La Suprema Corte, confermando la sentenza della Corte d’Appello, ha affermato che il livello di inquadramento del dipendente, comprendendo funzioni ad alto contenuto professionale svolte con carattere di iniziativa ed autonomia operativa, consentiva al lavoratore di operare la scelta di applicare sconti in favore di clienti ritenuti “storici”. Oltretutto, a parere dei Giudici di legittimità, la condotta tenuta dal dipendente avrebbe potuto eventualmente considerarsi illecita se fosse stata posta in essere al fine di ottenere un guadagno o comunque un interesse personale, tuttavia, nel caso in specie il lavoratore non aveva tratto alcun profitto dalla sua condotta, né aveva in alcun modo cercato di occultarla, registrando correttamente tutte le operazioni contabili necessarie e dimostrando di agire, pertanto, nell’esclusivo interesse del datore di lavoro.

Nel caso in oggetto, quindi, le circostanze in cui si erano svolti i fatti non avevano comportato alcuna lesione del vincolo fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro e presupposto fondamentale per la comminazione della massima sanzione disciplinare, rappresentata dal licenziamento per giusta causa.

Con tali argomentazioni, pertanto, la Suprema Corte ha confermato l’illegittimità del licenziamento. 

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

   Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Giusi Acampora e Michela Sequino

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Modificato: 2 Novembre 2020