25 Ottobre 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

PENSIONE DI VECCHIAIA ANTICIPATA. ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL LAVORATORE IN ETÀ PENSIONABILE CHE OPTA PER LA PERMANENZA IN SERVIZIO


CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 10883 DEL 23 APRILE 2021

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 10883 del 23 aprile 2021, ha sancito l’illegittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore di un’azienda di trasporto pubblico in possesso del requisito anagrafico per il conseguimento della pensione di vecchiaia anticipata che aveva manifestato la propria volontà a non accedere al pensionamento anticipato ed a rimanere in servizio.

Nel caso in esame, un dipendente con mansioni di conducente di autobus di un’azienda di trasporto pubblico impugnava il licenziamento intimato sul presupposto che il rapporto di lavoro, alla data dell’1.12.2017, doveva ritenersi risolto ad ogni effetto di legge per il raggiungimento dei requisiti pensionistici previsti dalla legge. Il Tribunale accoglieva l’impugnativa, disponeva la reintegrazione nel posto di lavoro e condannava la società datrice al pagamento di una indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. La Corte d’Appello, confermando la pronuncia di primo grado, rigettava il reclamo proposto dalla soccombente. Secondo la Corte di merito, infatti, il combinato disposto dell’art. 3, comma 1, lett. b), D.lgs. n. 414/1996 e dell’art. 1 D.lgs. n. 67/2011 attribuiva la facoltà al personale viaggiante addetto ai pubblici servizi di trasporto di accedere alla pensione anticipata di vecchiaia, ma solo su domanda del lavoratore stesso, di conseguenza in mancanza di una richiesta del lavoratore la società non avrebbe potuto recedere dal rapporto di lavoro al compimento dell’età per la pensione anticipata di vecchiaia.

Avverso tale sentenza la società proponeva ricorso in Cassazione lamentando violazione dell’art. 3 D.lgs. n. 414/1996 e dell’art. 1 D.lgs. n. 67/2011, per avere i Giudici di merito erroneamente ritenuto sussistente un diritto del lavoratore alla prosecuzione del rapporto in regime di stabilità reale fino al raggiungimento dell’età anagrafica per la pensione di vecchiaia prevista dalla legge per la generalità dei lavoratori, nonostante quest’ultimo al momento del licenziamento avesse già conseguito il diritto alla pensione di vecchiaia riservata dalla legge al personale viaggiante.

In via preliminare la Corte rilevava che soltanto la maturazione del diritto al pensionamento di vecchiaia consente al datore di lavoro il recesso ad nutum (ex multis Cass. n. 6537 del 2014; Cass. n. 13181 del 2018; Cass. n. 432 del 2019; Cass. n. 18662 del 2020); ciò sul presupposto che soltanto il diritto alla pensione di vecchiaia si consegue automaticamente al verificarsi dell’evento protetto, mentre il diritto alla pensione di anzianità si consegue con il necessario concorso della volontà dell’interessato. Secondo la Corte era necessario verificare se il lavoratore ultrasessantenne, al momento del licenziamento, fosse in possesso dei requisititi per il conseguimento della pensione di vecchiaia e se la volontà espressa dal lavoratore di permanere in servizio precludesse comunque il suo licenziamento. I Giudici Supremi, rilevavano come, nel caso di specie, operasse il regime previdenziale speciale che prevede la possibilità di erogare al personale viaggiante una “pensione di vecchiaia al raggiungimento del requisito anagrafico ridotto di cinque anni rispetto a quello tempo per tempo in vigore nel regime generale obbligatorio” che, letto in combinato con il D.L. n. 201/2011, consentiva di affermare che il lavoratore, al momento del recesso datoriale, era in possesso del requisito anagrafico per il conseguimento della pensione di vecchiaia anticipata. Per quanto concerne la volontà del lavoratore, secondo la Corte il licenziamento doveva ritenersi illegittimo in presenza di una volontà del lavoratore a permanere in servizio. A differenza di quanto argomentato dalla Corte d’Appello (secondo la quale, ai fini dell’applicabilità del recesso ad nutum, era altresì necessaria la domanda del lavoratore prevista dall’art. 1 D.lgs. n. 67/2011), la Cassazione riteneva che la circostanza secondo la quale il lavoratore avesse manifestato la propria volontà di non accedere al pensionamento anticipato e di permanere in servizio, costituiva impedimento alla possibilità del licenziamento ad nutum. Secondo la Corte, infatti, la facoltà di esercitare l’opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro ai sensi dell’art. 6 del D.L. n. 791/1981 doveva essere riconosciuta anche al personale viaggiante in possesso del requisito anagrafico per l’erogabilità della pensione di vecchiaia anticipata di cui al D.lgs. n. 414/1996, altrimenti non sarebbe ragionevole che il lavoratore, per il solo fatto di trovarsi nella situazione di poter richiedere il pensionamento anticipato, debba essere privato della facoltà di continuare a lavorare per raggiungere l’anzianità contributiva massima utile o per incrementarla ulteriormente.

La Corte, pertanto, confermava la sentenza e statuiva che nelle aziende di trasporto pubblico, per le quali opera il regime previdenziale di cui al D.lgs. n. 414/1996, un addetto al personale viaggiante ultrasessantenne in possesso del requisito anagrafico per il conseguimento della pensione di vecchiaia anticipata non può essere licenziato ai sensi dell’art. 4, comma 2, l. n. 108/1990 in presenza di una volontà espressa del lavoratore medesimo volta a non accedere al pensionamento anticipato ed a permanere in servizio.  


LE EROGAZIONI LIBERALI PERCEPITE DAL LAVORATORE DIPENDENTE, IN RELAZIONE ALLA PROPRIA ATTIVITÀ LAVORATIVA, TRA CUI LE COSIDDETTE MANCE, RIENTRANO NELL’AMBITO DELLA NOZIONE ONNICOMPRENSIVA DI REDDITO EX ART. 51, PRIMO COMMA DEL TUIR.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 26512 DEL 30 SETTEMBRE 2021.

La Corte di Cassazione – ordinanza n°26512 del 30 settembre 2021 – ha confermato, in tema di reddito da lavoro dipendente, ex art. 51, comma 1, del DPR 917/1986, l'onnicomprensività' del concetto di reddito di lavoro dipendente che giustifica la totale imponibilità di tutto ciò che il dipendente riceve, anche non direttamente dal datore di lavoro.

Nel caso de quo, un contribuente, lavoratore dipendente con la mansione di capo ricevimento per servizi di vario genere, espletati a beneficio dei clienti di un hotel della Costa Smeralda, era stato sottoposto a verifica fiscale dalla Guardia di Finanza di Olbia sulla scorta delle movimentazioni in entrata risultanti in un c/c postale e in un c/c bancario a lui intestati con conseguente recupero dell'imposta Irpef per l'anno 2005 su redditi non dichiarati per lavoro dipendente di € 77.321.00.

La Commissione Tributaria Provinciale di Sassari, adita dal lavoratore, aveva respinto il ricorso considerato il forte e diretto rapporto causale esistente, fra le mance percepite e le mansioni da lui esercitate all'interno del rapporto di lavoro. Non dello stesso avviso la CTR della Sardegna che aveva accolto l'appello del contribuente osservando che le argomentazioni poste a base dell'accertamento si fondavano sull'interpretazione del disposto dell'art. 51 del Tuir (nel testo in vigore dal 1.1.2004 al 2008); a giudizio della CTR, le mance venivano riscosse direttamente dal cliente, non avevano alcuna relazione con il datore di lavoro il quale non aveva alcun rapporto né sulla determinazione e né sulla percezione delle stesse.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l'Agenzia delle Entrate deducendo che le somme oggetto della tassazione in questione erano state percepite dal contribuente in relazione al rapporto di lavoro e rientravano pienamente nella nozione di reddito da lavoro dipendente (ex art. 51 Tuir) innovata con la riforma del D.Lgs. n°314/1997 – in sostituzione del precedente art. 48 del Tuir – che ha introdotto il concetto di natura onnicomprensiva del reddito da lavoro dipendente non più limitato al salario percepito dal datore di lavoro.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso evidenziando che l'art. 51 Tuir, nel testo post – riforma del 2004, applicabile, ratione temporis, alla controversia, espressamente prevede che "il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere" (intendendo con tale espressione la quantificazione dei beni e dei servizi) "a qualunque titolo percepiti nel periodo d'imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro". A seguito dell'emanazione del citato D.Lgs. n°341/1997, si evidenzia, altresì, un'unica nozione di reddito da lavoro dipendente tanto ai fini fiscali che contributivi. Sul punto, hanno continuato gli Ermellini, va rilevato come debba essere condiviso l'assunto dell'Amministrazione finanziaria ricorrente, secondo cui l'onnicomprensività del concetto di reddito di lavoro dipendente giustifica la totale imponibilità di tutto ciò che il dipendente riceve, anche, quindi, come nel caso in esame, non direttamente dal datore di lavoro, ma sulla cui percezione il dipendente può fare, per sua comune esperienza, ragionevole, se non certo affidamento.

Non giova, pertanto, a sostegno della tesi esposta dal contribuente nel doppio grado di merito, contestare la natura retributiva delle mance per sostenere che le stesse non sono ricomprese nella nozione di reddito di lavoro dipendente, atteso che il nesso di derivazione delle somme che comunque promanino dal rapporto di lavoro nè giustifica, nel citato contesto normativo di riferimento, la totale imponibilità, salvo le esclusioni (e/o deroghe) espressamente previste.


IL MERO RINVIO ALLA LEGGE O ALLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NON BASTA PER APPORRE UN TERMINE DI DURATA AL CONTRATTO DI LAVORO SUBORDINATO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 26692 DEL 1° OTTOBRE 2021

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 26692 del 1° ottobre 2021, ha (ri)affermato che l’apposizione di un termine di durata al contratto di lavoro subordinato deve necessariamente trovare l’esplicazione puntuale della sua ragione legittimante nel contratto individuale, ragione che non può consistere nel mero rinvio ad una norma di legge e/o di contratto collettivo.

Il caso esaminato ha riguardato un contratto a tempo determinato sottoscritto il 30.04.2001, prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 368/2001, pertanto legittimato dalla L. 230/62 (id: ipotesi tassative individuate dal legislatore) ovvero L. 56/87 -art. 23- (id: ipotesi individuate dalla contrattazione collettiva nazionale).

Nel primo grado il datore è risultato soccombente, mentre, nel secondo grado, la Corte distrettuale aveva ritenuto corretto il (mero) rinvio giuridico alla L. 230/62 art. 1.

Gli Ermellini, invece, dopo una ricognizione della normativa che medio tempore ha regolato il contratto a tempo determinato, hanno (ri)affermato che il semplice rinvio alla L. 230/62 non può essere ritenuto sufficiente, in quanto non compete al Giudice sussumere le fattispecie de qua ad una delle ipotesi previste dal legislatore.  Parimenti, laddove si fosse trattato di una ipotesi prevista dalla contrattazione collettiva, risultava necessario indicare la previsione del CCNL (allegandone copia) al fine di desumere la sussistenza della specifica causale.

La sentenza è di particolare interesse ed attualità, attesa la recente previsione introdotta dal D. L. 73/2021 (convertito da L. n° 106/2021) che, aggiungendo la lettera b-bis) all’art. 19 co. 1 del d.lgs. 81/2015, autorizza la contrattazione collettiva (anche aziendale) alla individuazione di specifiche ipotesi legittimanti l’apposizione del termine.


I MANCATI RISCONTRI AGLI INVITI E LA MANCATA ALLEGAZIONE ALL’ATTO INTRODUTTIVO RENDONO INUTILIZZABILI IN GIUDIZIO I DOCUMENTI A FAVORE DEL CONTRIBUENTE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 27047 DEL 6 OTTOBRE 2021

La Corte di Cassazione ha ribadito l’inutilizzabilità di documenti a favore del contribuente, se non allegati alle risposte agli inviti effettuati dall’Amministrazione Finanziaria, e parimenti non allegati all’atto introduttivo della lite.

Nel caso in esame, la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia aveva accolto le doglianze di un contribuente che aveva visto rideterminato il proprio reddito imponibile dell’anno d’imposta 2008 a seguito di accertamento sintetico ex art. 38 DPR 600/1973. L’Agenzia delle Entrate aveva avviato l’attività accertativa sulla base di un incremento patrimoniale derivante dall’acquisto di diversi immobili, dal possesso di diverse autovetture, dal pagamento di polizze assicurative, ingenerando quindi il convincimento del possesso di redditi non dichiarati. Il contribuente non aveva presentato, in risposta all’invito dell’Amministrazione Finanziaria, idonea documentazione a discarico delle presunzioni dell’Ente impositore, e così, a seguito dell’emissione di atto accertativo, si arrivò a incardinare giudizio innanzi la Commissione Tributaria Provinciale. Nel corso del giudizio di primo grado (n.d.a. non nell’atto introduttivo), il contribuente depositò in copia estratti conto della propria banca, in cui venivano elencati movimenti giustificativi della disponibilità bancaria delle somme utilizzate nel 2008 e, quindi, idonee a modificare il convincimento dei giudici. I giudici di prima istanza, e successivamente quelli d’appello, avevano ritenuto di utilizzare tali documenti per la modifica delle risultanze dell’atto accertativo.

Per gli Ermellini tale documentazione è irricevibile e, quindi, inutilizzabile ai fini del giudizio.

Rilevano infatti i giudici che tali documenti sono stati erroneamente ammessi in giudizio, pur contravvenendo a quanto contenuto nell’art. 32 del DPR 600/73.

In sostanza, in tema di accertamento fiscale, l'invito dell'Amministrazione finanziaria a fornire dati e notizie, di cui all'art. 32, quarto comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, assolve alla funzione di assicurare – in rispondenza ai canoni di lealtà, correttezza e collaborazione operanti in materia tributaria – un dialogo preventivo tra fisco e contribuente per definire le rispettive posizioni, mirando altresì ad evitare l'instaurazione del contenzioso giudiziario, per cui la mancata risposta alla richiesta è espressamente sanzionata con la preclusione (in sede amministrativa e processuale) dell'allegazione di dati e della esibizione di documenti non forniti in fase procedimentale. Tale inutilizzabilità consegue automaticamente all'inottemperanza all'invito, non è soggetta alla eccezione di parte e può essere rilevata d'ufficio in ogni stato e grado di giudizio: essa non opera solo quando il contribuente, beneficiando della deroga prevista dal quinto comma del citato art. 32, depositi unitamente all'atto introduttivo del giudizio di primo grado le notizie, i dati, i documenti, i libri e i registri non trasmessi e contestualmente dichiari di non aver potuto adempiere alle richieste dell'Ufficio per causa a lui non imputabile.

In conclusione, la ragione dell’accoglimento del ricorso dell’Agenzia delle Entrate è da ricercare nel comportamento renitente del contribuente, che non ha collaborato alla definizione di quegli elementi che avrebbero potuto modificare le risultanze dell’Ufficio nei tempi prescritti.


INVALIDO IL PATTO DI PROVA CHE CONTENGA INDICAZIONI GENERICHE RISPETTO ALLE MANSIONI AFFIDATE AL LAVORATORE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 27785 DEL 12 OTTOBRE 2021

La Corte di Cassazione, ordinanza n. 27785 del 12 ottobre 2021, afferma che ai fini della validità del patto di prova è necessaria una precisa indicazione al suo interno delle mansioni affidate al lavoratore, non essendo sufficiente un mero rinvio alla contrattazione collettiva.

Nel caso de quo una lavoratrice impugnava il licenziamento intimatole durante lo svolgimento del periodo di prova, dolendosi della genericità del contenuto del patto di prova nel quale veniva fatto generico rinvio alla categoria ed al livello di inquadramento previsti dal contratto collettivo applicato.

Il Tribunale prima e la Corte d’Appello poi hanno confermato l’invalidità del patto di prova stipulato e la conseguente illegittimità del licenziamento, condannando la società datrice alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro. I Giudici di merito avevano, infatti, rilevato la mancanza di specificità del patto di prova, giacché, questo conteneva un generico rimando alle disposizioni della contrattazione collettiva rispetto all’inquadramento contrattuale della dipendente, ma non una precisa indicazione delle mansioni da svolgere concretamente.

Il datore di lavoro quindi impugnava la sentenza dei Giudici di secondo grado.

La Suprema Corte, confermando il decisum dei Giudici di merito, afferma che la necessità di stipulare il patto di prova nasce dal bisogno di tutelare la reciproca valutazione che le parti contraenti devono operare in merito alla convenienza del contratto di lavoro. Tale finalità può essere raggiunta solo attraverso l’indicazione puntuale delle attività o mansioni sulle quali la convenienza dovrà essere sperimentata. Pertanto, conformemente alla giurisprudenza maggioritaria, i Giudici di Piazza Cavour affermano che il patto di prova deve contenere la specifica indicazione delle mansioni che ne sono oggetto, tale specificazione può avvenire anche con un richiamo alla contrattazione collettiva, purché quest’ultimo sia sufficientemente specifico e dettagliato. Ciò comporta che, se la categoria di un determinato livello accorpa più profili sarà necessaria l’indicazione precisa del singolo profilo, invece che genericamente della categoria.

Per le ragioni esposte la Suprema Corte rigetta il ricorso del datore di lavoro, confermando sia l’invalidità del patto di prova che l’illegittimità del licenziamento.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 25 Ottobre 2021