13 Novembre 2017

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

IL PROCEDIMENTO DISCIPLINARE PREVISTO DALL'ART. 7 DELLO STATUTO DEI LAVORATORI E' AUTONOMO RISPETTO ALL'EVENTUALE CONTENZIOSO PENALE IMPERNIATO DINANZI AL GIUDICE COMPETENTE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 25485 DEL 26 OTTOBRE 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 25485 del 26 ottobre 2017, ha (ri)statuito che il procedimento disciplinare previsto dalla L. n° 300/1970 gode di piena autonomia rispetto all'eventuale procedimento penale in discussione delle Sedi competenti.

Nel caso in disamina, un lavoratore della ASL TO 5 veniva licenziato, all'esito del procedimento disciplinare – ex art. 7 dello Statuto dei lavoratori -, per aver falsamente attestato la propria presenza in servizio. La procedura disciplinare veniva avviata dal datore di lavoro subito dopo l'avvenuta pubblicazione della sentenza di primo grado del giudizio penale instaurato per i reati di truffa aggravata e peculato.

Il lavoratore adiva la Magistratura sostenendo, fra l'altro, che la sentenza pronunciata, alla quale si rifaceva la ASL datrice di lavoro, era da ritenersi non definitiva e, conseguentemente, non utile per decretare un licenziamento.

Soccombente in entrambi i gradi di merito, il prestatore ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nell'avallare in toto il decisum dei gradi di merito, hanno nuovamente evidenziato che il procedimento disciplinare è totalmente autonomo rispetto all'eventuale giudizio penale pendente innanzi al Giudice competente. In tal senso, il datore di lavoro è tenuto, more solito, ad esplicitare in modo dettagliato e puntuale le contestazioni che vengono imputate al prestatore concedendogli, al contempo, il corretto lasso temporale, previsto dalla norma o dalla contrattazione di riferimento, per fornire le proprie difese.  

Pertanto, atteso che nel caso in disamina il datore di lavoro aveva puntualmente ed esaustivamente esposto i “fatti” addebitati al prestatore, il quale aveva risposto con argomentazioni molto vaghe e poco pertinenti, i Giudici di Piazza Cavour hanno rigettato il ricorso confermando la legittimità del licenziamento irrogato.

 

IN CASO DI MANCATO RINNOVO DELL'APPALTO E' GIUSTIFICATO IL LICENZIAMENTO DEI LAVORATORI DIRETTAMENTE COINVOLTI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 25653 DEL 27 OTTOBRE 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 25653 del 27 ottobre 2017, ha statuito, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo a seguito della perdita di un appalto (id: licenziamento individuale plurimo), che non si rende necessario il ricorso ad ulteriori criteri selettivi per adottare la misura della risoluzione del rapporto.

Nel caso de quo, un lavoratore con qualifica di autista era stato licenziato contestualmente ad altri tre dipendenti, stante la soppressione della posizione lavorativa a seguito della cessazione del contratto di appalto per il trasporto pubblico locale al quale era assegnato. Per la violazione degli obblighi di correttezza e buona fede nella scelta dei lavoratori da licenziare il lavoratore aveva impugnato il licenziamento.

La Corte di Appello di Milano, confermando la sentenza del Tribunale di Busto Arsizio, aveva respinto il ricorso del lavoratore rilevando che il licenziamento non era dettato da un'esigenza di riduzione del personale ma dal venir meno dell'appalto con conseguente soppressione di tutti i posti di lavoro ad esso inerenti, pertanto la scelta non poteva essere effettuata sull'intera platea dei lavoratori impiegati, non essendo necessario fare ricorso, neanche analogicamente, ai criteri previsti dall'art. 5 della legge n°223/91.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il lavoratore reiterando le proprie doglianze in relazione alla mancata comparazione rispetto a tutti gli altri lavoratori dell'intero complesso aziendale, svolgenti mansioni identiche, ancorché non impegnati nel medesimo appalto.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso ribadendo che il licenziamento in controversia non trova ragione in una generica esigenza di riduzione del personale omogeneo e fungibile, bensì nella cessazione di un servizio legato alla cessazione di un appalto; sicché, hanno continuato gli Ermellini, il nesso causale che deve sussistere tra la ragione organizzativa o produttiva posta a fondamento del recesso, ai sensi dell'art. 3, legge n°604/1966, e la soppressione del posto di lavoro è idoneo, di per sé, ad individuare il personale da licenziare, tanto che nella specie sono stati licenziati tutti gli autisti addetti a quel servizio, senza necessità di fare ricorso a criteri integrativi per la selezione dei licenziandi.

 

LE CIRCOLARI IN MATERIA TRIBUTARIA NON SONO FONTE DEL DIRITTO E NON POSSONO IMPORRE AL CONTRIBUENTE ADEMPIMENTI NON PREVISTI DALLA LEGGE.

CORTE DICASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 25905 DEL 31 OTTOBRE 2017

La Corte di Cassazione – Sezione tributaria -, sentenza n° 25905 del 31 ottobre 2017, ha statuito che le circolari in materia tributaria non sono fonte del diritto e non possono pertanto imporre al contribuente adempimenti non previsti dalla legge.

Nel caso in specie, ad un contribuente l’Agenzia delle Entrate notificava atto di recupero del credito di imposta utilizzato per l’investimento nelle aree svantaggiate (ex art. 8, legge n. 388/2000) per indebita fruizione del credito stesso. In particolare, secondo l’ufficio fiscale, l’inadempimento riguardava l’acquisto di un bene sulla cui fattura non era stata apposta la specifica dicitura “bene acquistato con il credito di imposta di cui all’art. 8 L. 388/2000”.

Il contribuente ricorreva prontamente alla giustizia tributaria, eccependo, tra i diversi motivi, che la previsione di revoca in assenza della dicitura era contenuta solo in una circolare, ma non nella norma che regolamentava il credito.

La C.T.P. accoglieva il ricorso, mentre la C.T.R. in riforma della sentenza impugnata, accoglieva l’appello principale dell’Ufficio e rigettava l’appello incidentale del contribuente.

L’imprenditore ricorreva per Cassazione, ponendo tra i propri motivi di gravame, l’errata applicazione della normativa regolante il credito di imposta la quale non prevedeva la dicitura suddetta sulle fatture a pena di decadenza del credito stesso.

I Giudici di Piazza Cavour, con la sentenza de qua, hanno accolto in toto il motivo di gravame principale del ricorrente, rilevando come la C.T.R. avesse errato nell’affermare che l’apposizione, sulle fatture relative all’acquisto di beni o servizi per i quali è applicabile l’agevolazione fiscale, della dicitura “bene acquistato con il credito di imposta di cui all’art. 8 della legge 23.12.2000 n. 388”, fosse non un adempimento meramente formale, ma un adempimento di natura sostanziale, la cui mancanza provocava la revoca della agevolazione tributaria. Tanto più che, il suddetto adempimento (id. il riporto della dicitura in fattura) contenuto in circolari ministeriali (n. 41/E del 18.4.2991 paragrafo 4 e n. 38/E del 9.5.2002 paragrafo 2.1), non trovava conforto in alcuna previsione normativa.

Infine, i Giudici delle Leggi, hanno ricordato come già in precedente giurisprudenza di legittimità si era affermato che le circolari ministeriali in materia tributaria non sono fonte del diritto e, pertanto, non possono imporre al contribuente adempimenti non previsti dalla legge e men che meno istituire cause di revoca della agevolazione fiscale non contenute in una norma di legge (Cass. n. 22486/2013), a nulla rilevando, hanno concluso gli Ermellini, che l’art. 8, legge n. 388/2000 prevedeva l’emanazione di specifici decreti ministeriali per la regolamentazione delle verifiche sulla corretta applicazione della norma. Ciò in quanto una simile previsione non consente comunque l’introduzione di causa di revoca attraverso una circolare.

Da qui l’accoglimento del ricorso del contribuente.

 

L’AVVISO DI RICEVIMENTO CONTROFIRMATO DAL RICEVENTE HA CARATTERE DI ESSENZIALITA’ AI FINI DEL PERFEZIONAMENTO DELLA NOTIFICA.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 23470 DEL 6 OTTOBRE 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 23470 del 6 ottobre 2017, ha statuito che ai fini del perfezionamento della notifica di un atto tributario eseguita a mezzo posta, e della sua relativa dimostrazione in sede giudiziale, l’avviso di ricevimento costituisce una prova essenziale e la sola dichiarazione di avvenuta consegna del plico, ancorché certificata dal Direttore dell’ufficio postale, non può, in alcun modo, ritenersi un documento equipollente al primo.

Il caso di specie riguarda un difetto di notifica lamentato da un contribuente, in relazione ad un’intimazione di pagamento avente come presupposto una cartella di pagamento tributi. I Giudici Territoriali non avevano ritenuto valida l’attestazione di avvenuta consegna del plico contenente l’atto impugnato, redatta dal Direttore dell’ufficio postale di recapito della raccomandata, in presenza dello smarrimento dell’originale dell’avviso di ricevimento sottoscritto dal contribuente destinatario.

I Giudici di piazza Cavour, confermando in toto i precedenti gradi di giudizio, hanno rigettato il ricorso, ritenendo non validamente provata la notifica dell’atto tributario eseguita a mezzo posta, che può essere dimostrata esclusivamente mediante l’esibizione dell’avviso di ricevimento ovvero di un suo duplicato. L’attestazione del Direttore dell’ufficio postale, prodotta dall’Agente alla Riscossione, non è stato ritenuto equipollente al duplicato di cui all’art. 8 del DPR n. 655/82, in quanto mancante della sottoscrizione del ricevente, né dà conto delle circostanze della consegna. Infatti l’art.8 citato prevede che “in caso di smarrimento dell’avviso, l’interessato non ha diritto ad alcuna indennità ma, può richiedere all’Amministrazione che gli venga rilasciato gratuitamente un duplicato dell’avviso stesso firmato dal destinatario o munito della dichiarazione di cui al primo comma.”

In nuce, per la S.C. l’Agente della riscossione avrebbe dovuto esibire, per sopperire allo smarrimento dell’avviso di ricevimento, il solo duplicato dello stesso, a comprova dell’avvenuta notifica, in quanto qualunque altro mezzo, è totalmente inefficace.

 

LA QUALIFICAZIONE SUBORDINATA DEL RAPPORTO DI LAVORO NON PUO’ PRESCINDERE DA UNA METICOLOSA RICOSTRUZIONE DEI PRESUPPOSTI FATTUALI DEL RAPPORTO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 24360 DEL 16 OTTOBRE 2017

La Corte di Cassazione, sentenza n° 24360 del 16 ottobre 2017, ha cassato la sentenza di merito con la quale riqualificava l’attività di volontariato in rapporto di lavoro subordinato, per mancanza degli elementi decisivi a comprovare la subordinazione.

Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Napoli rigettava il ricorso di opposizione a due ordinanze ingiunzioni in relazione ad una riqualificazione contrattuale ad opera della DTL. La Corte, infatti, aveva ritenuto i volontari della Confraternita di Misericordia di Caivano, impegnati nel trasporto di infermi in emergenza in regime di convenzione pubblica con l’Azienda Ospedaliera di Caserta, di fatto dipendenti della Confraternita. La Corte d’Appello aveva fondato il proprio convincimento sulla base di alcuni indici sussidiari, quali: il ricevere ordini da parte dei responsabili dei servizi ai quali erano addetti (nel caso di specie i medici del 118 ed il personale sanitario impegnato nel presidio ospedaliero), un rimborso fisso e determinato per ogni turno di 6 ore di circa 22-26 euro, la continuità nel servizio, la firma di fogli presenze ed alcuni di essi risultavano erano ex dipendenti della Confraternita stessa.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, con parziale accoglimento di tre dei sei motivi posti a base del ricorso, hanno duramente bacchettato i Giudici di merito per aver ritenuto la sussistenza del rapporto di lavoro su elementi contraddittori e non decisivi ai fini della subordinazione (art. 2094 c.c.). In particolare, poi, la presunta subordinazione dei volontari si è basata anche su delle direttive impartite agli stessi senza però spiegare in cosa consistessero tali direttive ed in cosa si discostassero rispetto a quelle che normalmente potrebbero essere impartite a dei volontari. Nondimeno, come le direttive impartite potessero trovare fondamento, benché provenienti da soggetti terzi non legati in alcun modo con l’associazione.

Inoltre, i Giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto che i Giudici di merito non hanno dato modo al ricorrente di dimostrare i fatti, non avendo acquisito agli atti verbali di precedenti cause atte a confutare orientamenti opposti alla sentenza impugnata, finendo così per violare l’art. 112 del c.p.c. che impone al Giudice di decidere tenendo conto della domanda e delle eccezioni di parte.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

 

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 13 Novembre 2017