5 Novembre 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

IL DATORE DI LAVORO E’ RESPONSABILE DELL’INFORTUNIO OCCORSO AL PROPRIO DIPENDENTE ANCHE SE LO STESSO E’ DOVUTO AD IMPERIZA E NEGLIGENZA DEL PRESTATORE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 27034 DEL 24 OTTOBRE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 27034 del 24 ottobre 2018, ha (ri)affermato che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al proprio dipendente anche se lo stesso è ascrivibile ad imperizia, negligenza e imprudenza di quest’ultimo. La responsabilità datoriale è da escludersi solo nel caso in cui l’evento traumatico trovi ragione in un comportamento del prestatore abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo “normale”.

Nel caso di specie, un dipendente rimaneva ferito, nel mentre saliva su un rimorchiatore, scivolando da una passerella eccessivamente inclinata e priva di efficienti correnti in alluminio.

Il dipendente adiva la Magistratura trovando pieno soddisfo alle proprie richieste sia in I° grado che in appello.

Il datore di lavoro ricorreva in Cassazione affermando, fra l’altro, che il prestatore non aveva utilizzato le scarpe antinfortunistiche regolarmente fornite in dotazione dall’azienda.

Orbene, gli Ermellini, nel dichiarare il ricorso inammissibile in quanto il deliberato di prime cure era correttamente, logicamente ed ampiamente motivato, hanno colto l’occasione per ricordare che a norma dell’art. 2087 c.c. il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore anche qualora lo stesso sia ascrivibile non soltanto ad una disattenzione ma anche ad imperizia, negligenza e imprudenza di questi. Il datore può essere ritenuto esente da colpe solo nel caso in cui l’evento traumatico trovi esclusivo fondamento in un comportamento del dipendente che assuma i caratteri di abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo “tipico” ed alle direttive ricevute.

Pertanto, atteso che nel caso de quo i Giudici di merito avevano ampiamente e logicamente motivato il proprio decisum, la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso non mancando di evidenziare (nuovamente) il sopraesposto principio.

 

IL DATORE DI LAVORO CHE NON PROVVEDE AL PAGAMENTO DEI CONTRIBUTI RESTA OBBLIGATO ANCHE PER LA QUOTA A CARICO DEI LAVORATORI SENZA POSSIBILITA' DI RIVALSA SUCCESSIVA.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 25856 DEL 16 OTTOBRE 2018.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 25856 del 16 ottobre 2018, ha (ri)confermato che il datore di lavoro resta tenuto al pagamento dei contributi o delle parti di contributi non versate, tanto per la quota a proprio carico che per la quota a carico del lavoratore.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Firenze aveva confermato la sentenza di primo grado, ritenendo applicabile il principio fissato dalla L. 4 aprile 1952, n°218, art. 23, secondo cui il datore di lavoro, a seguito del riconoscimento giudiziale di un rapporto di lavoro per il quale non ha provveduto al pagamento dei contributi, è tenuto al versamento anche per la quota a carico dei lavoratori, senza possibilità di una rivalsa successiva nei confronti del lavoratore.

A seguito di tale sentenza, la società Trenitalia Spa, datore di lavoro, aveva proposto ricorso per cassazione per avere la Corte di merito negato il diritto ad operare la ritenuta previdenziale per la quota a carico del lavoratore, invocando il combinato disposto degli artt. 19 e 23 della L. n°218 del 1952.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso precisando che il combinato disposto della L. n° 218 del 1952, artt. 19 e 23, delinea il regime giuridico di due distinte fattispecie, la prima delle quali ha ad oggetto l'ipotesi normale e fisiologica, del pagamento della contribuzione alla scadenza del periodo di paga, la seconda, quella patologica, dell'omissione del pagamento o dell'adempimento tardivo, facendone derivare conseguenze rilevanti in punto di responsabilità del datare di lavoro: nella prima ipotesi, la legge garantisce al datore di lavoro il diritto a trattenere il contributo a carico del lavoratore sulla retribuzione corrisposta alla scadenza del periodo di paga cui il contributo si riferisce, laddove, nella seconda ipotesi, il datore di lavoro resta tenuto al pagamento dei contributi o delle parti di contributi non versate, tanto per la quota a proprio carico che per la quota a carico del lavoratore.

La concentrazione in via definitiva del debito contributivo in capo al datore di lavoro, hanno continuato gli Ermellini, appare l'evidente elemento distintivo delle situazioni tipizzate dal legislatore attraverso disposizioni che altrimenti risulterebbero prive di alcuna concreta utilità normativa; infatti, l'art.19 qualifica il datore di lavoro come responsabile del pagamento dei contributi, contestualmente regolando il diritto di ritenzione a favore dello stesso, ex adverso l'art. 23 prevede che il datore di lavoro sia tenuto al pagamento per l'intero, senza null'altro aggiungere, così realizzandosi una coerente simmetria tra diversità di presupposti e diversità di effetti.

In definitiva, in conseguenza dell'inadempimento del datore di lavoro deve evitarsi che venga riversato sul lavoratore l'onere per il pagamento di somme arretrate, il cui livello si accresce per il tempo dell'inadempimento, assumendo proporzioni apprezzabili e direttamente proporzionali al perdurare dell'inadempimento del soggetto obbligato.

 

NON VALIDO L’ACCERTAMENTO INDUTTIVO BASATO ESCLUSIVAMENTE SULLA PRESENZA DI LAVORATORI “IN NERO” PER BREVE PERIODO

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 24995 DEL 10 OTTOBRE 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 24995 del 10 ottobre 2018, ha statuito che non è valido l’accertamento induttivo basato esclusivamente sulla presenza di lavoratori in nero, dovendo sussistere a carico dell’azienda anche gravi e ripetute violazioni contabili tali da far ritenere l'intera contabilità complessivamente ed essenzialmente inattendibile.

Nel caso in specie, a carico di una società l’Agenzia delle Entrate provvedeva ad emettere accertamento induttivo sulla base di un’irregolarità che aveva riguardato due lavoratori su ventuno, irregolarità che l’Agenzia aveva ritenuta tale da compromettere l’attendibilità delle intere scritture contabili obbligatorie.

La società provvedeva a impugnare immediatamente l’avviso di accertamento. La C.T.P accoglieva il ricorso, ritenendo insussistenti i presupposti dell’accertamento induttivo, in quanto l’ufficio non aveva sollevato contestazioni in ordine alla documentazione contabile consegnata dalla società in risposta al questionario relativo allo studio di settore, e non avendo l’ufficio instaurato il contraddittorio durante il procedimento di verifica. L’Agenzia delle entrate proponeva appello che veniva accolto dalla C.T.R.

Da qui, il ricorso per Cassazione da parte della società, che tra i propri motivi di gravame della sentenza impugnata denunciava la mancanza dei presupposti per avviare la procedura di accertamento induttivo, che è consentita in caso di omissioni e di inesattezze delle scritture contabili così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibile la contabilità aziendale nella sua interezza.

Ebbene, con la sentenza de qua, i Giudici delle Leggi hanno ritenuto fondato il ricorso della società, ricordando che secondo un consolidato orientamento di legittimità esistente in materia “è legittimo il ricorso al metodo induttivo di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria, nonché l’impiego, ai fini della determinazione dei maggiori ricavi, “dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, tra i quali sono compresi il volume di affari dichiarato dallo stesso contribuente e la redditività media del settore specifico in cui opera l’impresa sottoposta ad accertamento, solo in caso di irregolarità formali delle scritture contabili così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibili i dati in esse esposti” (Cfr. ex plurimis Cass. n. 11813/02, n. 10344/07, n. 17852/13, n. 1951/15).

Orbene, hanno concluso gli Ermellini, nell’avviso impugnato le uniche irregolarità contabili che avevano legittimato l’accertamento induttivo riguardavano le posizioni non regolari di due lavoratori dipendenti che furono poi oggetto di regolarizzazione contributiva a distanza di breve periodo dall’assunzione (il primo dopo dieci giorni e il secondo dopo circa cinque mesi). Pertanto, le irregolarità contabili dell’impresa non risultavano così gravi e ripetute da legittimare il ricorso automatico da parte del Fisco all’accertamento induttivo puro, di cui all’art. 39, secondo comma, del D.P.R. n. 600/73.

Per le motivazioni suddette la sentenza impugnata è stata completamente cassata senza però liquidare in favore della società ricorrente le spese del giudizio di legittimità.
 

L’ACCERTAMENTO DELLA NATURA SUBORDINATA DEL RAPPORTO DI LAVORO NON PUO’ PRESCINDERE DALLA VALUTAZIONE DEI CRITERI COMPLEMENTARI E SUSSIDIARI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 25711 DEL 15 OTTOBRE 2018.

La Corte di Cassazione sentenza n° 25711 del 15 ottobre 2018, ha riaffermato la necessità della valutazione dei criteri complementari e sussidiari nell’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro.

Nel caso de quo, un lavoratore adiva la Magistratura chiedendo l’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro, celata da una serie di contratti di collaborazione coordinata e continuativa ed a progetto, da lui stipulati con il medesimo datore di lavoro.

Dall’istruttoria giudiziaria emergevano la compatibilità delle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa con il contratto di collaborazione, la validità formale dei contratti stipulati e la puntuale definizione del progetto e degli obiettivi da raggiungere. Soccombente in entrambi i gradi di giudizio, il lavoratore ricorreva in Cassazione.

Nel confermare la sentenza di merito, i Giudici di Piazza Cavour hanno riaffermato che quando l’accertamento della presenza  della subordinazione sia reso gravoso dallo svolgimento di mansioni di carattere intellettuale o professionale, occorrerà verificare la presenza di criteri complementari quali: la collaborazione, la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario di lavoro, il versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, il coordinamento con l’assetto organizzativo del datore di lavoro, l’assenza di una pur minima struttura imprenditoriale in capo al lavoratore, che valutati nella loro globalità, insieme al nomen iuris utilizzato dalle parti  per qualificare il contratto, assumono valore dirimente nella determinazione della natura subordinata o autonoma del rapporto di lavoro.

Nel caso in oggetto, il Giudice di merito aveva verificato che gli elementi posti a fondamento della richiesta del lavoratore, non erano sintomatici né della presenza dell’elemento della subordinazione, né dello stabile inserimento del lavoratore all’interno dell’impresa, ma erano al contrario valutabili come regole minime, compatibili con la natura autonoma della prestazione lavorativa. Pertanto, i Giudici della Suprema Corte hanno rigettato il ricorso.

 

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO PER RIFIUTO DI SVOLGERE MANSIONI NON CORRISPONDENTI ALLA QUALIFICA

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 24118 DEL 3 OTTOBRE 2018.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 24118 del 03.10.2018, ha affermato la legittimità del licenziamento del dipendente che si rifiuta di svolgere mansioni inferiori a livello di appartenenza, posto che l'illegittimo comportamento datoriale abilita il prestatore a rivolgersi al Giudice, ma non anche a rifiutare aprioristicamente lo svolgimento della prestazione.

Nel caso de quo, l’ex lavoratrice di una società di ristorazione, inquadrata con la qualifica di cuoca di IV livello, nell’ambito del servizio di ristorazione appaltato alla società datrice di lavoro presso una scuola comunale per l’infanzia, impugnava il licenziamento per giustificato motivo soggettivo comminatole per aver reiteratamente rifiutato, di portare in classe le colazioni da distribuire ai piccoli commensali. Il rifiuto scaturiva dal fatto che tale compito esulava dalle mansioni proprie della qualifica di appartenenza.

La Cassazione, ribaltando quanto statuito dalla Corte d’Appello, ha affermato che l'illegittimo comportamento del datore, consistente nell'assegnare il dipendente a mansioni inferiori a quelle corrispondenti alla sua qualifica, non può giustificare il rifiuto aprioristico della prestazione lavorativa. Riguardo le disposizioni impartite dal datore di lavoro, il lavoratore può legittimamente invocare l’art. 1460 del cod. civ., rendendosi inadempiente, solo in caso di totale inadempimento dell’altra parte o nel caso in cui l’inadempimento del datore di lavoro sia tanto grave da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali del lavoratore medesimo o da esporlo a responsabilità penale connessa allo svolgimento di nuove mansioni”

In tali casi, secondo i Giudici di legittimità, il lavoratore può richiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell'ambito della qualifica di appartenenza, ma non può rifiutarne l'adempimento, essendo tenuto ad osservare le disposizioni per l'esecuzione del lavoro impartite dall'imprenditore, ex artt. 2086 e 2104 c.c.

 Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Antonio Novellino, Francesco Pierro e Michela Sequino

 

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Modificato: 5 Novembre 2018