9 Novembre 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

PER SUPERARE LA PRESUNZIONE DI GRATUITA' DELLA PRESTAZIONE TRA LE PERSONE LEGATE DA VINCOLI DI PARENTELA OCCORRE FORNIRE LA PROVA RIGOROSA DEGLI ELEMENTI TIPICI DELLA SUBORDINAZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 20904 DEL 30 SETTEMBRE 2020.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 20904 del 30 settembre 2020, ha confermato, in tema di riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro, che tra persone legate da vincoli di parentela o di affinità opera una presunzione di gratuità della prestazione lavorativa.

Nel caso de quo, la Corte territoriale di Bologna aveva respinto l'appello interposto da una lavoratrice, nei confronti del "presunto" datore di lavoro, avverso la pronunzia del Tribunale di Rimini con la quale era stato rigettato il ricorso diretto ad ottenere il riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso tra le parti, le mansioni di commessa di 4 livello del CCNL del settore commercio ed il pagamento, in suo favore, delle retribuzioni non pagate.

In particolare, il rapporto di lavoro si era svolto nell'ambito di un'associazione in partecipazione nella quale il marito della ricorrente era associato ed a favore del quale, la lavoratrice asseriva di aver prestato attività di lavoro dipendente in qualità di commessa in due negozi siti nel riminese.

La Corte territoriale aveva escluso la natura subordinata del rapporto sulla scorta dell'evidenza di una presenza sporadica e di interventi non continuativi della ricorrente, nell'ambito di una collaborazione di tipo familiare ovvero anche ascrivibile al disposto dell'art. 230-bis c.c. (id: impresa familiare).

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la lavoratrice eccependo, tra l'altro, che la Corte territoriale aveva erroneamente richiesto alla lavoratrice l'onere di dimostrare il carattere subordinato della prestazione resa.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso, dichiarando non meritevoli di accoglimento le motivazioni addotte, essendo tese, nella sostanza, a contestare la valutazione degli elementi probatori operata dai giudici. 

All'uopo, hanno continuato gli Ermellini, gli elementi delibatori non consentivano di acclarare che il rapporto di cui si tratta avesse i connotati della subordinazione; nel caso di specie, i Giudici di appello, attraverso un percorso motivazionale condivisibile sotto il profilo logico-giuridico, sono pertanto pervenuti alla decisione, dopo aver analiticamente vagliato le risultanze dell'istruttoria espletata in primo grado, del tutto in linea con gli arresti giurisprudenziali della Suprema Corte.

Tra persone legate da vincoli di parentela o di affinità, hanno concluso gli Ermellini, opera una presunzione di gratuità della prestazione lavorativa, che trova la sua fonte nella circostanza che la stessa viene resa normalmente affectionis vel benevolentiae causa; con la conseguenza che, per superare tale presunzione, è necessario fornire la prova rigorosa degli elementi tipici della subordinazione, tra i quali, soprattutto, l'assoggettamento al potere direttivo-organizzativo altrui e l'onerosità. Al riguardo, in particolare, i Giudici di seconda istanza hanno affermato che le risultanze istruttorie non solo non hanno fornito alcun elemento per accertare il vincolo della subordinazione, ma hanno dimostrato che l'attività della ricorrente si inseriva in un rapporto di collaborazione familiare.

LA CONSEGNA A DOMICILIO DELLE PIZZE ESCLUDE CATEGORICAMENTE LA COLLABORAZIONE A PROGETTO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 23768 DEL 28 OTTOBRE 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 23768 del 28 ottobre 2020, ha statuito che la consegna a domicilio delle pizze in una catena di pizzerie da asporto non può mai configurare un rapporto di collaborazione a progetto per identità della prestazione con l’attività costituente il core business aziendale.

Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguardava degli addetti alla consegna di pizze a domicilio ed il committente era una società che gestiva una catena di punti vendita/pizzerie da asporto con consegne a domicilio.

Gli Ermellini, nel confermare i precedenti gradi di merito, hanno precisato che il progetto, ovvero il programma o fase di esso, deve avere “contenuto caratterizzante”, ergo una indicazione, da inserire nel contratto che ne delimiti con chiarezza e precisione l’oggetto e la portata. Inoltre, deve poter essere gestito in “autonomia” dal collaboratore e tendere, nel rispetto del coordinamento con l’organizzazione del committente, ad un “risultato”, vale a dire il conseguimento di un obiettivo definito che, ancorché non eccezionale e del tutto sconnesso con l’ordinaria e complessa attività d’impresa, deve da questa concretamente essere distinguibile e tale da integrare un apporto collaborativo non circoscritto ad un segmento distinto di una più ampia organizzazione produttiva.

IRREVERSIBILE LA SCELTA OPERATA DAL LAVORATORE TRA LA REINTEGRAZIONE E L’INDENNITÀ SOSTITTUTIVA

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 22063 DEL 13 OTTOBRE 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 22063 del 13 ottobre 2020, ha statuito che la scelta operata dal lavoratore dipendente in ordine alle opzioni della reintegra o dell’indennità sostitutiva, in seguito a licenziamento dichiarato illegittimo, non è reversibile.

Nel caso de quo, il datore di lavoro ricorreva in Tribunale per opporsi al decreto ingiuntivo proposto dal lavoratore dipendente al fine di ottenere l’indennità sostitutiva della reintegra, pari a quindici mensilità, in seguito a sentenza del Tribunale con la quale veniva dichiarata l’illegittimità del licenziamento ed allo stesso tempo veniva disposta la reintegra del lavoratore.

Soccombente in entrambi i gradi di giudizio, il lavoratore ricorreva allora in Cassazione.

Gli Ermellini, confermando il disposto della Corte distrettuale, affermano che la scelta effettuata dal lavoratore fra la reintegrazione nel posto di lavoro e l’indennità economica sostitutiva, prevista dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, rappresenta l’esercizio di un diritto potestativo, che dal momento in cui viene attivato produce effetti sostanziali irreversibili, determinando l'estinzione del rapporto e liberando il datore di lavoro dall'obbligo della reintegrazione.

Nel caso in oggetto, il lavoratore aveva in un primo momento ripreso servizio presso il datore di lavoro e solo successivamente aveva comunicato la volontà di avvalersi dell’opzione dell’indennità sostitutiva.

A parere dei Giudici di legittimità, la ripresa dell’attività lavorativa, seppure per un breve periodo di tempo, rappresenta una manifestazione della volontà di rinunciare all’indennità sostitutiva in favore dell’alternativa della prosecuzione del rapporto di lavoro.

L'alternatività quale diritto potestativo origina il fenomeno della cosiddetta "concentrazione", il cui principale effetto è quello di determinare l’unica prestazione dovuta, eliminando di conseguenza tutte le altre.

Il lavoratore, optando per il rientro al lavoro, ha automaticamente rinunciato alla seconda possibilità e per tali motivazioni i Giudizi di Piazza Cavour hanno rigettato il ricorso proposto dal lavoratore.

IL SEPARATO DI FATTO NON HA DIRITTO ALLE AGEVOLAZIONI FISCALI SULL’ABITAZIONE PRINCIPALE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 21611 DEL 7 OTTOBRE 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 21611 del 7 ottobre 2020, ha statuito che i separati di fatto non hanno diritto alle agevolazioni fiscali sull'abitazione principale, in questo caso quella sull'ICI, se la norma rinvia alla famiglia tradizionale, e non vi è alcuna disparità di trattamento con i conviventi more uxorio.

Con la sentenza de qua, i Giudici di piazza Cavour, hanno accolto il ricorso del Comune di Novara che aveva negato a un contribuente le agevolazioni ICI sull'abitazione principale in quanto lui viveva in una casa e la moglie e figli in un'altra.

Per i Supremi Giudici, in tema di imposta ICI, ai fini della spettanza dell'agevolazione prevista, per le abitazioni principali (id: quella di residenza anagrafica), dall'art. 8 del D.lgs n. 504/1992, occorre che il contribuente provi che l'abitazione costituisca dimora abituale non solo propria, ma anche dei suoi familiari, non potendo sorgere il diritto alla detrazione ove tale requisito sia riscontrabile solo per il medesimo.

Inoltre, per gli Ermellini è risultato del tutto erroneo l'argomento esposto dalla Commissione Tributaria Regionale sulla irrilevanza della separazione di fatto. Infatti, la convivenza di fatto, anche prima di ricevere riconoscimento legislativo dalla legge n. 76/2016 si connotava come formazione sociale tutelabile proprio in ragione della imitazione del costume matrimoniale e cioè per la stabile coabitazione e l'assistenza materiale e morale.

In nuce, per la S.C., è quindi una contraddizione in termini parlare di convivenza di persone che mantengono due diverse “abitazioni abituali, e in ogni caso ciò non sposta i termini della questione, poiché la norma applicabile, come sopra detto, conferisce rilievo, ai fini di ottenere l’agevolazione fiscale, alla sussistenza di una abitazione principale identificabile come quella in cui risiede non solo il proprietario, ma anche i suoi familiari. Ex adverso, il beneficio de quo non spetta atteso che l'art. 8 citato, come tutte le norme che prevedono un beneficio fiscale in deroga alla norma generale, è di stretta interpretazione.

LEGITTIMA L’ASSEGNAZIONE A MANSIONI INFERIORI, PER MOTIVATE ESIGENZE AZIENDALI, A MAGGIOR RAGIONE SE PER POCO TEMPO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 22668 DEL 19 OTTOBRE 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 22668 del 19 ottobre 2020, ha statuito che il lavoratore può essere adibito, per motivate esigenze aziendali, anche a compiti inferiori, se marginali rispetto a quelli propri del suo livello, a maggior ragione se l’incarico copre un limitato arco temporale, nell’ambito di una singola giornata lavorativa.

Nel caso in esame, la Corte d’Appello di Lecce confermava la decisione del Giudice di prime cure rigettando la domanda proposta da un lavoratore volta a sancire l’obbligo per la società datrice di adibirlo esclusivamente alle mansioni di sua competenza e non a quelle inferiori e dequalificanti assegnategli. L’azienda, infatti, con un ordine di servizio aveva disposto che svolgesse la mansione di “operatore di manutenzione”, precedentemente svolta presso la stessa azienda, e non quella abitualmente ricoperta di “operatore di scambi cabina”. Contestualmente sosteneva anche il carattere vessatorio e mobbizzante del comportamento della società datrice di lavoro che si concretava nel suo demansionamento e nella reiterata irrogazione di sanzioni disciplinari, conseguenti al rifiuto ad adempiere ai compiti assegnati, nonché la richiesta di condanna al risarcimento del danno biologico, professionale, esistenziale e morale subito.

Sia i Giudici di primo grado che quelli di Appello ritenevano, invece, legittimo l’impiego del dipendente in mansioni inferiori a quelle proprie della qualifica di appartenenza, “dovendo ammettersi una tale flessibilità, tenuto conto del ridotto periodo di tempo di adibizione ad esse, in assoluto e nell’arco della singola giornata lavorativa”.

Avverso tale sentenza il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione sostenendo la violazione dell’art. 2013 codice civile e del Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro applicato, affermando che l’adibizione del lavoratore a compiti propri della qualifica inferiore rivestita in precedenza era esclusa sul piano legislativo e contrattuale e che la condotta della società era qualificabile come mobbing, per il quale si richiedeva il risarcimento del danno.

I Giudici della Suprema Corte, invece, ricordando che il lavoratore può essere adibito, per motivate esigenze aziendali, anche a compiti inferiori, se marginali rispetto a quelli propri del suo livello (cfr. Cass. Sez. Lav, n. 21515 del 31 agosto 2018) hanno stabilito che la flessibilità data dall’impiego del lavoratore in mansioni promiscue si rivelava di per sé legittima, mentre non trovava “ostacolo nella disciplina contrattuale di settore, la cui interpretazione in termini di legittimazione della ‘flessibilità in uso’, in quanto autorizzata da precedenti accordi collettivi, pur dichiarati superati”.

In conclusione, la Corte rigettava il ricorso e, stante l’assenza di condotte illegittime da parte della società, constatava anche l’infondata pretesa risarcitoria.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

   Hanno collaborato alla redazione le Colleghe Giusi Acampora e Michela Sequino

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Modificato: 9 Novembre 2020