5 Dicembre 2016

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

L’ACCETTAZIONE DEL TFR OVVERO L’AVER TROVATO UNA NUOVA OCCUPAZIONE NON EQUIVALE AD ACCETTAZIONE PER MUTUO CONSENSO DEL LICENZIAMENTO INTIMATO DAL DATORE DI LAVORO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 22489 DEL 4 NOVEMBRE 2016

La Corte di Cassazione, sentenza n° 22489 del 4 novembre 2016, ha (ri)statuito che l’incasso del trattamento di fine rapporto da parte del lavoratore licenziato, ovvero l’aver cercato/trovato una nuova occupazione, non equivale ad una accettazione, per tacito mutuo consenso, dell’atto di recesso datoriale.

Nel caso in disamina, una lavoratrice dipendente, nelle more dell’esperimento del tentativo di conciliazione innanzi alla competente D.P.L. (regime normativo ante L. n° 183/2010) e dell’impugnazione giudiziale del licenziamento, reperiva una nuova occupazione lavorativa, anche al fine di soddisfare le esigenze di vita proprie e dei familiari a suo carico.

Soccombente in Appello, dopo il pieno soddisfo in I° grado, la prestatrice ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nel rinviare gli atti alla Corte territoriale per un nuovo deliberato, hanno evidenziato che per aversi mutuo consenso, inteso a risolvere il rapporto di lavoro, non basta il mero decorso del tempo fra il licenziamento e l’impugnazione giudiziale ma, ex adverso, è necessario il concorso di ulteriori e significative circostanze della cui prova è gravato il datore di lavoro. A tal fine, non costituiscono circostanze significative l’aver regolarmente incassato il trattamento di fine rapporto ovvero aver ricercato/trovato una nuova occupazione lavorativa.

Pertanto, atteso che nel caso de qu,o la lavoratrice, sola e con figli a carico, aveva cercato e trovato una nuova occupazione per far fronte alle improcrastinabili esigenze familiari, i Giudici dell'Organo di nomofilachia hanno cassato la sentenza rinviando gli atti alla Corte di Appello per un nuovo deliberato.

AI FINI DEL CALCOLO DEL PERIODO DI COMPORTO DEVE TENERSI CONTO ANCHE DEI GIORNI NON LAVORATIVI CADENTI NEL PERIODO DI ASSENZA PER MALATTIA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 24027 DEL 24 NOVEMBRE 2016

La Corte di Cassazione, sentenza n° 24027 del 24 novembre 2016, ha nuovamente statuito che, al fine di calcolare correttamente l'eventuale superamento del periodo di comporto, è necessario includere anche i giorni non lavorativi cadenti nel periodo di assenza per malattia. Inoltre, i Giudici di Piazza Cavour hanno evidenziato che il datore di lavoro, il quale abbia già intimato un licenziamento, per una determinata causa o motivo, può legittimamente intimare un secondo licenziamento fondato su una diversa ragione o motivazione.

Nel caso in disamina, un dipendente veniva licenziato per superamento del periodo di comporto. Nel lasso temporale intercorrente fra l'invio della raccomandata postale contenente l'atto di recesso e la sua materiale notifica al destinatario, il lavoratore scivolava in azienda, restando infortunato. L'azienda datrice di lavoro intimava un nuovo licenziamento per giusta causa perseguendo il (presunto) comportamento fraudolento del prestatore che, a suo giudizio, avrebbe simulato l'evento traumatico.

Soccombente in entrambi i gradi di merito, ancorché in diversa misura, il subordinato ricorreva in Cassazione.

Orbene gli Ermellini, nel confermare integralmente la legittimità dell'atto di recesso datoriale, hanno sottolineato che, al fine di determinare correttamente il periodo di comporto, è necessario conteggiare anche i giorni non lavorativi cadenti nel periodo di assenza per malattia dovendosi presumere la continuità dell'episodio morboso. Tale presunzione opera sia per le festività sia nel caso in cui un certificato termini il giorno precedente il riposo domenicale (nel caso de quo il venerdì) ed il successivo decorra dal primo giorno lavorativo successivo la domenica (nel caso di specie il lunedì).

Pertanto, atteso che nel caso de quo, il datore di lavoro aveva conteggiato i giorni di assenza nel pieno rispetto del principio sopra enunciato e che l'atto di recesso era stato seguito da un ulteriore (legittimo) licenziamento per giusta causa, i Giudici di Piazza Cavour hanno rigettato il ricorso affermando la correttezza dell'operato datoriale ed escludendo che il procedimento disciplinare, avviato dopo il “primo licenziamento”, potesse equivalere ad una rinuncia per facta concludentia all'atto di recesso unilaterale inizialmente comminato.

IN TEMA DI PROCEDURA DI MOBILITA', LE DISPOSIZIONI RELATIVE ALLE COMUNICAZIONI EX ART. 4 COMMA 9, L. 223/91, SONO ESTESE ANCHE ALLE IMPRESE CHE INTENDONO CESSARE L'ATTIVITA'.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 22736 DEL 22 NOVEMBRE 2016

La Corte di Cassazione, sentenza n° 22736 del 22 novembre 2016, ha (ri)confermato, in tema di procedure per il licenziamento collettivo, che l'obbligo di comunicazione agli Enti regionali ed alle Organizzazioni sindacali, al termine della procedura, è immanente anche in caso di cessazione dell'attività aziendale.

Nel caso in specie, la Corte d'Appello di Napoli, riconfermando la sentenza del Tribunale di Benevento, aveva condannato una società al pagamento di un'indennità risarcitoria, commisurata in dodici mensilità, per aver violato l'obbligo, avente carattere cogente, di comunicazione, ex art. 4, comma 9, legge n° 223/91, agli Organi Amministrativi ed alle OO.SS. dell'elenco dei lavoratori licenziati nel termine di sette giorni dalla comunicazione dell'atto di recesso, al termine della procedura di mobilità per cessazione dell'attività aziendale.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società eccependo che, invero, le comunicazioni suddette, nell'ambito della più ampia procedura prevista dalla legge n° 223/91, hanno come scopo di rendere visibile e, quindi, controllabile il motivo del recesso, mentre, nel caso in specie, ovvero in caso di cessazione di attività non ricorre la ratio di garanzia sottesa alla disciplina generale; posto, altresì, che nessuno dei lavoratori e le OO.SS. avevano mai discusso circa i motivi del licenziamento collettivo in quanto inevitabile.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso e confermato i contenuti delle sentenze di prime cure. In particolare, gli Ermellini, hanno ricordato che, ai sensi dell'art. 4, comma 9, legge n° 223/91, l'impresa, esaurita la procedura di cui ai commi 6,7 e 8 può collocare in mobilità i lavoratori comunicando per iscritto a ciascuno di essi il recesso nel rispetto dei termini di preavviso, contestualmente (termine successivamente sostituito dalla L. 92/2012 in sette giorni) ha l'obbligo di comunicare l'elenco dei lavoratori collocati in mobilità, con indicazione delle modalità di applicazione dei criteri di scelta, agli Organi Amministrativi regionali nonché alle OO.SS..

Gli Ermellini hanno altresì ribadito, che i termini anzidetti hanno carattere essenziale ed operano in modo cogente, a nulla rilevando che il licenziamento attuato si basi su un criterio di scelta unico per il verificarsi della cessazione dell'attività aziendale. 

LA CONFISCA PER EQUIVALENTE VA SEMPRE DISPOSTA ANCHE NEL CASO DI PATTEGGIAMENTO DELL’IMPUTATO.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 50338 DEL 28 NOVEMBRE 2016

La Corte di Cassazione – III Sezione Penale -, sentenza n° 50338 del 28 novembre 2016, ha statuito che, nell’ambito dei reati tributari, la confisca diretta o per equivalente del profitto del reato va sempre obbligatoriamente disposta, anche con la sentenza di applicazione della pena ex art. 444 C.P.P..

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour hanno accolto le doglianze del Procuratore Generale avverso la sentenza di applicazione della pena nei confronti di un contribuente reo di aver omesso, ex art. 5 DLgs. N.74/2000, la dichiarazione dei redditi per una determinata annualità e che, in particolare, lamentava come la sentenza impugnata avesse omesso di disporre la confisca per equivalente, prevista per il reato contestato, in relazione al profitto coincidente.

Con la sentenza de qua, gli Ermellini hanno ricordato come ai sensi dell’art. 12 bis DLgs. n. 74/2000 nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’art. 444 C.P.C. per uno dei delitti previsti dal Decreto deve essere sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto ovvero il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato. Quando questo non sia possibile, deve essere ordinata la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo e a tale profitto.

Pertanto, per la S.C., la misura ablativa in esame, anche per equivalente, deve essere sempre disposta ai sensi del citato art. 12 bis del DLgs. n.74/2000 con riferimento a tutti i delitti del decreto medesimo, anche e soprattutto per quello oggetto di contestazione.

LA GRAVITA’ DEL FATTO POSTO A BASE DEL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE VA VALUTATA ANCHE CON RIFERIMENTO AI PRECENTI DISCIPLINARI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 24030 DEL 24 NOVEMBRE 2016

La Corte di Cassazione, sentenza n° 24030 del 24 novembre 2016, ha ricordato che il licenziamento per giusta causa deve tener conto della condotta complessivamente tenuta dal lavoratore, ivi compresi tutti i precedenti disciplinari ancorché risalenti.

Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Napoli, confermando la sentenza di primo grado, aveva dichiarato illegittimo un licenziamento per giusta causa comminato ad un lavoratore per la condotta tenuta nei confronti di una lavoratrice nel corso di un’assemblea sindacale.

Secondo la Corte di merito, il comportamento non integrava la fattispecie prevista dal CCNL di riferimento, mancando la grave turbativa alla vita aziendale prevista nell’elencazione delle infrazioni disciplinari. Nel contempo, non venivano considerati rilevanti i precedenti disciplinari.

Nel caso de quo, gli Ermellini, in via preliminare hanno ricordato che l’art. 2119 c.c. è da intendersi norma elastica, con contenuto precettivo ampio e polivalente tale da essere oggetto di progressive precisazioni da parte dei Supremi Giudici. Ne consegue che, la giusta causa necessita di essere verificata in concreto, contestualizzando il singolo rapporto, la posizione delle parti, il grado di affidamento per le specifiche mansioni svolte, la rilevanza soggettiva dei fatti accaduti, le circostanze in cui sono accaduti, i motivi e l’intensità dell’elemento soggettivo intenzionale colposo o doloso.

Ebbene, la Suprema Corte ha ritenuto che i giudici di merito non hanno correttamente valutato la condotta complessiva del lavoratore, non facendo emergere l’incidenza dei precedenti disciplinari, benché risalenti, di ammonizione scritta e di sospensione disciplinare, ritenuti, invece, rilevanti ai fini di una corretta valutazione dell’ultimo episodio contestato. Conseguentemente, la sentenza è stata cassata e rinviata alla Corte d’Appello di Napoli in diversa composizione.

Ad maiora
IL PRESIDENTE

EDMONDO DURACCIO


(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!


Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 5 Dicembre 2016