12 Novembre 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

NELLA VALUTAZIONE DEL DANNO NON PATRIMONIALE IL GIUDICE DEVE TENERE CONTO DEI PREGIUDIZI PATITI DALLA VITTIMA EVITANDO DI DUPLICARE I RISARCIMENTI RICONDUCIBILI AL MEDESIMO NOCUMENTO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 26996 DEL 24 OTTOBRE 2018.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 26996 del 24 ottobre 2018, ha statuito che il Giudice, nella sua attività mirata alla quantificazione del danno non patrimoniale conseguente ad un infortunio sul lavoro, deve attentamente valutare i pregiudizi patiti dal prestatore evitando, al contempo, di duplicare i risarcimenti riconducibili allo stesso pregiudizio seppur individuati con differenti nomi.

Nel caso de quo, un dipendente, a seguito di un infortunio patito nel mentre era al lavoro, adiva la Magistratura rivendicando, fra l’altro il pagamento del danno differenziale, del danno biologico, del danno morale e, finanche, del danno esistenziale.

Il datore di lavoro resisteva in giudizio evidenziando come l’evento traumatico fosse imputabile anche alla negligenza del prestatore che non aveva indossato l’elmetto protettivo regolarmente fornito dall’azienda ai propri dipendenti.

Attesi i contrasti dei gradi di merito, il lavoratore ricorreva in Cassazione.

Orbene, i Giudici di Piazza Cavour, nel dichiarare il ricorso inammissibile in quanto fondato su una nuova valutazione dei fatti non eseguibile in sede di legittimità, hanno colto l’occasione per evidenziare che il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria ampia e omnicomprensiva nella cui liquidazione il Giudice deve tenere conto dei pregiudizi concretamente patiti dalla vittima ma senza duplicare il risarcimento attraverso l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici. A tal fine il danno biologico è da intendersi inerente la salute della persona, ed è oggettivamente riscontrabile, mentre il danno morale deve riferirsi più strettamente alla sfera psichica e dell’animo del lavoratore.

Pertanto, atteso che nel caso de quo i Giudici di merito avevano ampiamente e logicamente motivato il proprio decisum, e la richiesta del prestatore consisteva in una duplicazione di danno riconducibile al medesimo pregiudizio patito, la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso non mancando di sottolineare l’importanza della valutazione del giudice e della sua attenzione nel non deliberare risarcimenti per pregiudizi nei quali l’unica differenziazione è rappresentata dal nome utilizzato per identificarli.

LA SANZIONE ACCESSORIA DELLA SOSPENSIONE DELL’ESERCIZIO DELL’ATTIVITÀ NEL CASO DI VIOLAZIONE DELL’OBBLIGO DI EMETTERE LA RICEVUTA FISCALE O LO SCONTRINO FISCALE, AVENDO FUNZIONE AFFLITTIVA, È SOTTOPONIBILE AL REGIME DEL FAVOR REI

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 26178 DEL 18 OTTOBRE 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 26178 del 18 ottobre 2018, ha statuito che per il principio del “favor rei”, la sanzione accessoria della sospensione dell'esercizio dell'attività commerciale che si rende applicabile se nel corso di un quinquennio sono contestate quattro distinte violazioni dell'obbligo di emissione della ricevuta fiscale o degli scontrini fiscali, debba trovare applicazione nei casi di provvedimenti di sospensione che siano basati  sulla contestazione di tre sole violazioni nell’arco di cinque anni.

Nel caso in specie, con tre distinti pvc, la Guardia di Finanza aveva accertato la mancata emissione da parte di una società degli scontrini o delle ricevute fiscali e, di conseguenza, l'Agenzia delle Entrate aveva emesso i relativi atti di contestazione. Successivamente la Società in questione aveva definito in via agevolata la violazione contestata e l’Agenzia aveva provveduto, quale sanzione accessoria, ad adottare il provvedimento di sospensione dell’attività per quindici giorni, per avere la Società contribuente omesso di emettere, in tre diverse circostanze e nell'arco di un quinquennio, gli scontrini o le ricevute fiscali.

La società ricorreva alla giustizia tributaria, ma risultava soccombente in entrambi i giudizi di merito, da qui il ricorso per Cassazione.

Al riguardo la società nel ricorrere in Cassazione evidenziava che la previsione di cui all’art. 12, comma 2, del decreto legislativo n. 471/1997, nel testo vigente al tempo in cui era stata emessa l’ordinanza di sospensione, prevedeva che la sanzione accessoria poteva trovare applicazione se erano state definitivamente accertate, in tempi diversi, tre distinte violazioni dell’obbligo di emettere la ricevuta fiscale o lo scontrino fiscale compiute in giorni diversi nel corso del quinquennio. Successivamente, la previsione in esame è stata oggetto di modifica dall’art. 1, comma 269, della legge 244/2007, che ha, invece, diversamente disposto, in quanto ha previsto che la sanzione può trovare applicazione quando, nel corso di un quinquennio, sono contestate, ai sensi dell’art. 16 del decreto legislativo n. 472/1997, quattro distinte violazioni dell’obbligo di emissione della ricevuta fiscale o degli scontrini fiscali.

Secondo parte ricorrente, dunque, alla fattispecie di violazione contestata avrebbe dovuto applicarsi, in virtù del principio del favor rei, la disciplina più favorevole introdotta dalla novella normativa di cui sopra, atteso che nei confronti della medesima erano state accertate solo tre violazioni all'obbligo di emissione scontrino/ricevuta, mentre, a seguito della segnalata modifica normativa, la sanzione poteva trovare applicazione solo nel caso di contestazione di quattro violazioni.

Orbene, con la sentenza de qua, gli Ermellini hanno accolto in toto il ricorso condividendo le motivazioni della parte ricorrente, chiarendo che “la sanzione accessoria della sospensione dell’esercizio dell’attività nel caso di violazione dell’obbligo di emettere la ricevuta fiscale o lo scontrino fiscale, di cui all’art. 12, comma 2, del decreto legislativo n. 471/1997, avendo funzione afflittiva, è sottoponibile al regime del favor rei di cui all’art. 3 del decreto legislativo n. 472/1997”.

Pertanto, hanno concluso i Giudici delle Leggi, essendo la modifica normativa sopravvenuta effettivamente più favorevole per la parte ricorrente, in quanto, avendo la stessa compiuto la violazione all’obbligo di emettere lo scontrino o la ricevuta fiscale, nel corso di un quinquennio, per tre volte e non per quattro (come previsto dal testo modificato della previsione di legge in esame), viene meno il presupposto per l’irrogazione della sanzione accessoria della sospensione dell’attività.

LEGITTIMO IL CRITERIO DI VICINANZA ALLA PENSIONE NEL CASO DI LICENZIAMENTI COLLETTIVI

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 24755 DELL’8 OTTOBRE 2018

La Corte di Cassazione, sentenza ° 24755 dell’8 ottobre 2018, ha statuito che può essere licenziato il lavoratore prossimo alla pensione senza che questo rappresenti una forma di discriminazione anche se l'area aziendale non è in crisi.

Nel caso di specie, gli Ermellini, ribaltando in toto la decisione dei Giudici Territoriali che avevano dato ragione al lavoratore coinvolto in una procedura di licenziamento collettivo ex lege 223/1991, le cui doglianze riguardavano un abuso sull'individuazione dei lavoratori in esubero in base al criterio selettivo della maggiore vicinanza alla pensione in forza di un accordo collettivo raggiunto con il sindacato, hanno accolto le ragioni del datore di lavoro richiamando una precedente pronuncia della stessa Corte su un caso analogo (Cass. n. 19457/2015), secondo cui "in tema di licenziamenti collettivi diretti a ridimensionare l'organico al fine di diminuire il costo del lavoro, il criterio di scelta unico della possibilità di accedere al prepensionamento, adottato nell'accordo sindacale tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali, è applicabile a tutti i dipendenti dell'impresa a prescindere dal settore al quale gli stessi siano assegnati, senza che rilevino i settori aziendali di manifestazione della crisi cui il datore di lavoro ha fatto riferimento nella comunicazione di avvio della procedura, valorizzando tale soluzione, in linea con la volontà del legislatore sovranazionale, espressa nelle direttive comunitarie recepite dalla Legge n. 223 del 1991 e codificata nell'art. 27 della Carta di Nizza, il ruolo del sindacato nella ricerca di criteri che minimizzino il costo sociale della riorganizzazione produttiva, a vantaggio dei lavoratori che non godono neppure della minima protezione della prossimità al trattamento pensionistico".

Ex adverso, la Corte d'Appello di Firenze, aveva dichiarato la nullità del licenziamento intimato, in sede di procedura ex lege n. 223/91, da Unipol Sai Assicurazioni, condannando la società de qua a reintegrare l'uomo nel suo posto di lavoro e a corrispondergli il risarcimento del danno dal licenziamento alla reintegra. La Corte Territoriale sosteneva la violazione della procedura di cui all'art. 4 della legge n. 223/1991 perché, pur valutando legittimo il criterio dell'accesso a pensione, ne rilevava l'uso strumentale e scorretto da parte della società diretto solo a delimitare l'area degli esuberi senza alcun rapporto concreto e, soprattutto, formalizzato, con la effettiva situazione produttiva ed organizzativa in eccedenza. Di conseguenza, oltre che la violazione della procedura, derivava anche la lesione del principio paritario cui l'ordinamento fa conseguire la nullità del licenziamento.

In nuce, con la sentenza de qua, la S.C. non rilevando nessuna forma di discriminazione, ha ribadito che "l'adozione del criterio della maggiore vicinanza alla pensione risulta coerente con la finalità del minor impatto sociale perché astrattamente oggettivo e in concreto verificabile e quindi rispondente alle necessarie caratteristiche di obiettività e razionalità".

E’ LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DI UN LAVORATORE PER SOPRAVVENUTA INIDONEITA’ FISICA SE NON COLLOCABILE IN ALTRI REPARTI DELL’IMPRESA

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 27243 DEL 26 OTTOBRE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 27243 del 26 ottobre 2018, ha statuito la piena legittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore per sopravvenuta inidoneità fisica, nonostante la possibilità di adibire lo stesso ad attività diverse o ad altra mansione equivalente, o anche inferiore, attesi gli eccessivi oneri organizzativi, consistenti nelle modificazioni delle prestazioni di altri colleghi.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Milano, confermando la sentenza di primo grado, riteneva corretto il licenziamento di un lavoratore per sopravvenuta inidoneità alle mansioni di addetto al preconfezionamento, stante anche l’impossibilità di adibire lo stesso ad altre mansioni senza che ciò si ripercuotesse in modo sensibile sugli altri lavoratori e sull’intera organizzazione aziendale.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, in linea con il ragionamento logico giuridico dei Giudici di merito, hanno inizialmente ricordato i principi già espressi dalla Corte di Giustizia in materia di lavoratori disabili riguardo al fatto che, in conseguenza a ciò, non possono essere imposti al datore di lavoro adattamenti e modifiche dell’assetto organizzativo tali da imporre un onere sproporzionato o eccessivo.

Continuando, hanno poi chiarito che, riguardo all’orientamento giurisprudenziale nazionale in materia, la sopravvenuta infermità permanente, tale da rendere impossibile la prestazione lavorativa, può escludere il recesso del datore di lavoro quando tale attività (equivalente o inferiore) sia utilizzabile dall’impresa secondo il proprio assetto organizzativo. Quindi, quando questa situazione crea una sensibile alterazione dell’assetto organizzativo il recesso datoriale è legittimo. E’risultato, infatti, dimostrato che il lavoratore non potesse essere collocato in altro ambito senza che ciò comportasse sul piano pratico un onere finanziario sproporzionato rispetto alle dimensioni e alle caratteristiche dell’azienda.

ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA SE IL LAVORATORE SVOLGE PRESTAZIONE LAVORATIVA DURANTE IL PERIODO DI ASSENZA PER MALATTIA SENZA COMPROMETTERE LA GUARIGIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 27656 DEL 30 OTTOBRE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 27656 del 30 ottobre 2018, ha (ri)affermato che lo svolgimento dell’attività lavorativa durante il periodo di malattia non è sufficiente a configurare un licenziamento per giusta causa se tale prestazione non sia incompatibile con lo stato di salute del lavoratore, quindi senza ritardare o impedire la guarigione.

Nel caso de quo, un dipendente veniva licenziato per giusta causa, per aver posto in essere alcuni comportamenti negligenti in relazione alla prestazione di lavoro svolta durante un periodo di malattia conseguente ad infortunio sul lavoro.

Il Tribunale di primo grado aveva rigettato il ricorso del lavoratore, nel mentre i Giudici distrettuali, in parziale accoglimento dell’appello del subordinato, accertavano l’insussistenza della giusta causa di licenziamento, condannando la società al pagamento in favore del lavoratore dell’indennità risarcitoria spettante ai sensi dell’art. 18, comma 5 della Legge 300/1970.

Sia il lavoratore che il datore ricorrevano in Cassazione.

Gli Ermellini hanno (ri)precisato che, in tema di svolgimento dell’attività lavorativa durante l’assenza per malattia, non sussiste nel nostro ordinamento un divieto assoluto per il dipendente di prestare attività lavorativa durante la malattia a meno che non siano lesi i doveri di correttezza e buona fede e gli obblighi di diligenza e fedeltà al punto tale da giustificare un recesso per giustificato motivo, lesione che va accertata nei gradi di merito e che non è sindacabile, se correttamente motivata, dall’organo nomofilattico.

Per l’effetto, la Cassazione, avendo ritenuto la sentenza della Corte d’Appello conforme al diritto e all’orientamento giurisprudenziale ed essendo stata correttamente motivata la sussunzione della fattispecie nel precetto normativo, ha rigettato entrambi i ricorsi

 Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Natalia Andreozzi e Francesco Pierro

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Modificato: 12 Novembre 2018