16 Novembre 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

IL REDDITO PER PARAMETRARE IL VALORE DEGLI ANF E’ QUELLO DEL NUCLEO CREATOSI CON LA SEPARAZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 24606 DEL 4 NOVEMBRE 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 24606 del 4 novembre 2020, ha (ri)statuito che l’A.N.F. ha natura assistenziale e, pertanto, va parametrato con riferimento al nucleo familiare composto dal coniuge affidatario e dai figli, con esclusione del coniuge legalmente separato, il cui reddito rileva solo ai fini del diritto all'erogazione della provvidenza.

Nel caso in questione, la ricorrente, affidataria della figlia minore, chiamava in giudizio, fra gli altri, l’Inps al fine di farsi riconoscere il diritto alla percezione degli assegni familiari.

Soccombente in primo grado si vedeva riconoscere il diritto dalla Corte distrettuale.

L'istituto, nel ricorrere alla Suprema Corte, sosteneva che nell'ipotesi di separazione personale dei coniugi dovesse considerarsi titolare del diritto all'assegno il coniuge affidatario dei figli, con la conseguenza che i requisiti reddituali dovessero essere verificati con riferimento al nucleo familiare di detto coniuge affidatario. Di conseguenza l'assegno non potrebbe essere riconosciuto ove in capo al coniuge affidatario non si fossero realizzate le condizioni di cui alla L. n. 153 del 1988, art. 2, comma 10 che prevede che il totale dei redditi da lavoro dipendente o equiparati – redditi nei quali rientra anche l'assegno di mantenimento dell'affidatario corrisposto dall'altro coniuge – sia almeno pari al 70% del reddito complessivo del nucleo familiare.

Gli Ermellini hanno respinto il ricorso dell’Inps affermando che “il reddito rilevante ai fini dell'ammontare dell'assegno è quello del nucleo familiare composto dal coniuge affidatario e dai figli, con esclusione del coniuge legalmente separato, anche se titolare del diritto alla corresponsione, il cui reddito rileva solo ai fini del diritto all'erogazione della provvidenza”.

 

NELLA PROCEDURA DI ABBRIVIO EX ART. 4 COMMA 3 DELLA LEGGE N. 223 DEL 1991 OCCORRE ILLUSTRARE LA SITUAZIONE SPECIFICA DEL PERSONALE DI TUTTE LE UNITA' PRODUTTIVE AI FINI DELLA VALUTAZIONE DELLA INFUNGIBILITA'.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 21306 DEL 5 OTTOBRE 2020.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 21306 del 5 ottobre 2020, ha confermato, in tema di violazione e illegittimità della procedura per licenziamento collettivo, la necessaria illustrazione, nella comunicazione di avvio ex art. 4, comma 3. legge n°223/91, della situazione aziendale relativa a tutti i reparti e unità produttive, al fine di individuare i lavoratori destinatari del licenziamento.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Napoli, in riforma della sentenza di primo grado, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento collettivo intimato da una società ad un impiegato addetto all'unità produttiva di Casavatore (Na) e condannato il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro nonché al pagamento di un'indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, ex art. 18, comma 5 della legge n°300/70. In particolare, la Corte territoriale aveva ritenuto che il licenziamento, limitato ad una sola sede aziendale, risultava affetto da violazione procedurale consistente nella rappresentazione, nell'ambito della comunicazione ex art. 4, comma 3, legge n°223/91 di uno stato di crisi economica di tutte le attività svolte nella provincia di Napoli dovuta alla perdita di un cliente, ma carente della illustrazione relativa alla situazione specifica del personale delle altre unità produttive.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società sostenendo la legittimità della comunicazione rispetto al dettato normativo, apparendo del tutto ultroneo procedere altresì alla descrizione della situazione di tutte le altre unità produttive, collocate a notevole distanza dalla sede in crisi.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso rimarcando che, in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, la platea dei lavoratori interessati alla riduzione  può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore ove ricorrano oggettive esigenze tecnico – produttive, tuttavia è necessario che queste siano coerenti con le indicazioni contenute nella comunicazione di avvio della procedura ed è onere del datore di lavoro provare il fatto che giustifica il più ristretto ambito nel quale la scelta è stata effettuata. Ben può quindi il datore di lavoro circoscrivere ad una u.p. la platea dei lavoratori da licenziare ma deve indicare nella comunicazione di avvio sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell'unità in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad altre unità produttive, ciò al fine di consentire alle oo.ss. di verificare l'effettiva necessità dei programmati licenziamenti, nonché il nesso fra le ragioni che determinano l'esubero di personale e le unità lavorative che l'azienda intenda concretamente espellere. Qualora, hanno concluso gli Ermellini, nella comunicazione si faccia generico riferimento alla situazione generale del complesso aziendale, senza alcuna specificazione delle unità produttive da sopprimere, i licenziamenti intimati sono illegittimi per violazione dell'obbligo di specifica indicazione delle oggettive esigenze aziendali.

 

È LEGITTIMO LICENZIARE CHI HA RAGGIUNTO L'ETÀ PER LA PENSIONE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 18372 DEL 4 SETTEMBRE 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 18372 del 4 settembre 2020, ha statuito che è legittimo il licenziamento di una dipendente di banca per raggiungimento del requisito anagrafico per la pensione e, pertanto, è inammissibile il ricorso di una lavoratrice per revocazione di una precedente sentenza degli stessi Giudici.

Nello specifico, con una prima sentenza , n° 6986/2018,  i Giudici di piazza Cavour, confermando in toto la decisione dei Giudici Territoriali, avevano dichiarato pienamente legittimo il licenziamento di una dipendente bancaria, dopo il diniego da parte della datrice di lavoro della richiesta avanzata dalla lavoratrice di proseguire il rapporto anche se la stessa aveva raggiunto il 65° anno di età, così come era stata rigettata anche la domanda di risarcimento per danno morale, esistenziale e alla salute lamentato dalla dipendente a causa del licenziamento.

Gli Ermellini, con tale sentenza, avevano ritenuto motivi del ricorso generici, carenti dal punto di vista probatorio e non conformi al modello legale le censure sulla contraddittorietà della motivazione con particolare riferimento alla decisività dei vizi dedotti, oltre ad aver rilevato l'improcedibilità del ricorso per mancato deposito del contratto collettivo di settore richiamato in vari punti dell'atto e per la mancata indicazione del luogo di deposito nei precedenti gradi di merito.

La dipendente ricorrente, non essendo convinta, chiedeva pertanto la revocazione della sentenza 6986/2018, deducendone l'illegittimità, poiché il ricorso presentava tutti i requisiti necessari alla sua ammissibilità e contestandone l'illegittimità per sussistenza del vizio revocatorio perché la Corte non aveva erroneamente tenuto conto della sussistenza dei presupposti di legge per l'ammissibilità del ricorso con particolare riferimento al motivo con cui la ricorrente aveva censurato l'errata interpretazione da parte della Corte d'Appello della normativa in materia pensionistica che riconosce al lavoratore di poter optare per il proseguimento del rapporto anche se ha raggiunto il requisito anagrafico per la pensione.

Ex adverso, i Giudici di legittimità, con l'ordinanza de qua, confermando quanto statuito nella sentenza richiamata, hanno dichiarato il ricorso per revocazione inammissibile, dopo aver esaminato congiuntamente i due motivi sollevati e dopo aver richiamato le SU n. 31132/2019, che hanno fornito importanti chiarimenti sull'impugnazione per revocazione.

In nuce per la S.C. " il ricorso va dichiarato inammissibile, atteso che le critiche alla sentenza della Cassazione n. 6986 del 2018 formulate dalla ricorrente investono l'errata interpretazione delle proprie ragioni, e non sono invece basate su una svista percettiva immediatamente percepibile delle stesse da parte del Giudice di Legittimità, che sola può dar luogo all'errore di fatto che giustifica il ricorso al rimedio della revocazione, ai sensi dell'art. 395, n. 4 cod. Proc. Civ", diversamente da quanto avvenuto nel caso di specie, visto che la ricorrente aveva censurato "non un errore di fatto (…) bensì un'errata considerazione e interpretazione dell'oggetto del ricorso e, quindi, un errore di giudizio".

 

IL PERIODO DI CONGEDO STRAORDINARIO E’ ESCLUSO DAL CALCOLO DELLA TREDICESIMA MENSILITA’

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 24206 DEL 2 NOVEMBRE 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 24206 del 2 novembre 2020, ha affermato che nel calcolo degli importi spettanti a titolo di tredicesima mensilità non debba essere preso in considerazione il periodo di congedo concesso al lavoratore per l’assistenza al figlio malato.

Nel caso preso in esame, infatti, una lavoratrice dipendente della Pubblica Amministrazione, che aveva fruito di un lungo periodo di congedo per poter assistere il figlio minore, affetto da leucemia, agiva in giudizio per il riconoscimento dei ratei di tredicesima mensilità maturati durante il periodo di congedo che, invece, non le erano stati corrisposti dall’amministrazione datrice di lavoro.

Sia il Giudice di prime cure che il Giudice d’Appello ritenevano la richiesta priva di fondamento, pertanto la dipendente proponeva ricorso in Cassazione evidenziando la violazione dell'art. 42, co. 5, D.lgs. 151/2001 che, rinviando alle regole sulla corresponsione dell’indennità di maternità, riconosceva il diritto alla considerazione del periodo di congedo per il calcolo della mensilità aggiuntiva. Rilevava, inoltre, che l’esclusione del periodo di congedo dal calcolo determinava un trattamento discriminatorio, in pregiudizio della situazione di disabilità, oltre che una disparità di trattamento rispetto al congedo di maternità.

Gli Ermellini, pur precisando che ratione temporis non trovavano applicazione le modifiche apportate all'art. 42, co. 5, D.lgs. 151/2001 dal D.lgs. 119/2011, secondo cui il periodo di congedo parentale per assistenza a congiunti disabili non rileva ai fini della maturazione delle ferie, della tredicesima mensilità e del trattamento di fine rapporto, confermavano quanto stabilito dai Giudici d’Appello. Infatti, l'art. 43 del D.lgs. 151/2001, nel regolare il trattamento economico e normativo di riposi, permessi e congedi, mentre dedicava il primo comma espressamente a riposi e permessi, non poneva delimitazioni in merito alla disciplina del trattamento dei congedi parentali contenuta nel secondo comma, la quale andava dunque riferita anche ai congedi di cui trattasi. Le argomentazioni della Corte Territoriale, inoltre, venivano ritenute valide anche perché la previsione allora vigente, secondo cui “l’indennità è corrisposta dal datore di lavoro secondo le modalità previste per la corresponsione dei trattamenti economici di maternità”, andava riferita alla sola disciplina della corresponsione dell’istituto (a carico del datore di lavoro) e non alla sua portata giuridica ed economica ed alle influenze sulla tredicesima.

La Corte, inoltre, escludeva totalmente l’ipotesi, sostenuta dalla ricorrente, di incostituzionalità per violazione dell’art. 3 della Costituzione per una disparità di trattamento rispetto all’assenza per astensione obbligatoria, trattandosi di istituti diversi per finalità e condizioni. L’astensione obbligatoria per maternità (o, quando prevista in sostituzione di essa, di paternità), infatti, “si associa ad un evento del tutto unico, quale la sopravvenienza di un figlio ed i corrispondenti diritti vengono fruiti anche se si tratti di figlio disabile sicché è palese la diversità di condizioni rispetto al caso del congedo parentale per la mera presenza di figli minori o di quello per assistenza ai disabili”. Né poteva ravvedersi una discriminazione, poiché determinante ai fini del riconoscimento di un atto come discriminatorio “è l’esistenza di un trattamento di sfavore per il discriminato, da misurarsi attraverso una comparazione in astratto rispetto a categorie di persone non interessate dal fattore di protezione che si assume pregiudicato” e, nel caso in specie il raffronto non può essere fatto né con chi, non avendo la necessità del congedo, non ne goda, né con chi fruisca di congedi per motivazioni diverse dalla disabilità (in questo caso il trattamento è identico pertanto non potrebbe esserci discriminazione alcuna), né con chi fruisca dell’astensione obbligatoria dal lavoro per i medesimi motivi addotti nel caso della disparità di trattamento.

In conclusione, la Corte di Cassazione respingeva il ricorso escludendo l’ipotesi di una discriminazione a fronte del trattamento previsto in caso di congedo per maternità e confermava l’esclusione del periodo di congedo straordinario dal calcolo della tredicesima mensilità.

 

LEGITTIMA LA FREQUENZA DI CORSI DI FORMAZIONE DURANTE LA FRUIZIONE DEI PERMESSI EX LEGGE N. 104/1992

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 23434 DEL 26 OTTOBRE 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n. 23434 del 26 ottobre 2020, ha stabilito la liceità della frequenza di corsi di formazione durante la fruizione dei permessi previsti dalla Legge n.104/1992.

Nel caso in oggetto il datore di lavoro intimava ad una sua dipendente il licenziamento per giusta causa, motivato con l’abuso dei permessi previsti dalla Legge n. 104/1992, art. 33 comma 3.

In particolare, il datore di lavoro aveva accertato, dalla relazione dell’agenzia investigativa da lui incaricata, che la dipendente, in seguito alla richiesta dei tre giorni di permessi per l’assistenza del padre, aveva in una di queste giornate frequentato un corso di formazione.

La Corte d’Appello aveva ritenuto illegittimo il licenziamento ed il datore di lavoro ricorreva di conseguenza in Cassazione.

Gli Ermellini, confermando la statuizione dei Giudici di secondo grado, hanno affermato che il dettato normativo della Legge n. 104/1992 riconosce i permessi in ragione della necessità di assistere una persona disabile, prevedendo una diretta relazione causale tra la richiesta del permesso e le necessità di cura del familiare; pertanto, ogni utilizzo difforme rispetto a questa esigenza costituisce un abuso del diritto.

Le modalità di assistenza possono però manifestarsi in maniera differente, anche attraverso lo svolgimento di incombenze amministrative o pratiche nell’interesse della persona disabile.

Inoltre, a parere dei Giudici della Suprema Corte l’attività di assistenza al familiare deve essere effettiva e prevalente.

Nella fattispecie affrontata in giudizio veniva accertato che la lavoratrice aveva dedicato un numero di ore persino superiori al suo orario di lavoro all’assistenza del padre e di conseguenza non si poteva ritenere che la stessa avesse utilizzato i permessi per svolgere esclusivamente attività nel suo personale interesse, ossia la frequenza del corso di formazione.

Per le motivazioni esposte i Giudici hanno rigettato il ricorso del datore di lavoro, dichiarando illegittimo il licenziamento.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

 

   Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Giusi Acampora e Michela Sequino

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Modificato: 16 Novembre 2020