8 Novembre 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

 

Oggi parliamo di………….

 

LE SOMME VERSATE DALL'INAIL A TITOLO DI INDENNIZZO IN TEMA DI INFORTUNIO SUL LAVORO NON POSSONO CONSIDERARSI INTEGRALMENTE SATISFATTIVE DEL DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO BIOLOGICO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 24401 DEL 9 SETTEMBRE 2021.

La Corte di Cassazione – ordinanza n° 24401 del 29 settembre 2021 – ha (ri)confermato, in tema di infortunio sul lavoro con particolare riguardo al cosiddetto danno differenziale che quest'ultimo spetta ai lavoratori che dimostrino di aver subito, in ragione di un fatto illecito commesso dal datore di lavoro o da un terzo, un danno maggiore rispetto a quello che l'Inail gli ha risarcito.
Nel caso de quo, la Corte di appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva parzialmente accolto le domande avanzate da un lavoratore nei confronti dell'impresa di cui era stato dipendente a tempo determinato e disposto la condanna al pagamento di una somma a titolo di danno differenziale conseguente all’inabilità permanente residuata da un infortunio sofferto.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il datore di lavoro sostenendo che non sarebbe stata dimostrata l'esistenza di patimenti che avrebbero giustificato il riconoscimento del danno differenziale nella misura del 40%, come ritenuto immotivatamente dalla Corte di Appello.  

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso evidenziando che, le somme eventualmente versate dall'Inail a titolo di indennizzo, ex art. 13 del D.Lgs. n°38/2000,  non possono considerarsi integralmente satisfattive del diritto al risarcimento del danno biologico in capo al soggetto infortunato o ammalato, sicché, a fronte di una domanda del lavoratore che chieda al datore di lavoro il risarcimento dei danni connessi all'espletamento dell'attività lavorativa (nella specie, per demansionamento), il giudice adito, una volta accertato l'inadempimento, dovrà verificare se, in relazione all'evento lesivo, ricorrano le condizioni soggettive ed oggettive per la tutela obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali stabilite dal DPR n°1124/1965, ed in tal caso, potrà procedere, anche di ufficio, alla individuazione dei danni richiesti che non siano riconducibili alla copertura assicurativa (id: danni complementari), da risarcire secondo le comuni regole della responsabilità civile; ove siano dedotte in fatto dal lavoratore anche circostanze integranti gli estremi di un reato perseguibile di ufficio, potrà pervenire alla determinazione dell'eventuale danno differenziale. La Corte territoriale, hanno concluso gli Ermellini, ha fatto corretta applicazione dei principi ricordati e non è incorsa in alcuna violazione delle regole dettate in ordine alla distribuzione degli oneri probatori atteso che il lavoratore ha puntualmente allegato i fatti poi accertati nel corso del giudizio per il tramite di accertamento peritale disposto d'ufficio.

 

IN TEMA DI IMPOSTA DI REGISTRO, IL NOTAIO ROGANTE E' RESPONSABILE D'IMPOSTA, BENCHE' RESTINO OBBLIGATE AL PAGAMENTO DEL TRIBUTO LE PARTI SOSTANZIALI DELL'ATTO MEDESIMO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 26361 DEL 29 SETTEMBRE 2021.

 

La Corte di Cassazione – ordinanza n° 26361 del 29 settembre 2021 – ha confermato, in tema di somme conferite al notaio a titolo di imposta di registro e non versate, che le parti sostanziali dell'atto restano i soggetti solidalmente obbligati con il notaio al pagamento dell'imposta, anche in caso di registrazione a mezzo procedura telematica.

Nel caso de quo, il giudizio aveva ad oggetto l'impugnazione di un avviso di liquidazione con cui era stato richiesto alle parti, acquirenti e venditrici di un immobile, il pagamento dell'imposta di registro, in relazione ad un atto pubblico, corrisposta a mezzo assegni al notaio rogante al momento della stipula, che tuttavia ne aveva omesso il versamento all'amministrazione finanziaria.

La CTP aveva accolto il ricorso dei contribuenti, sul presupposto che solo il notaio rogante potesse effettuare la registrazione, per cui doveva riconoscersi efficacia liberatoria ex art. 1188 c.c. al versamento dell'imposta nelle sue mani; ex adverso, la CTR del Molise in riforma della sentenza di primo grado, aveva accolto il gravame dell'Ufficio finanziario rilevando che le parti sostanziali dell'atto restavano i soggetti solidalmente obbligati con il notaio al pagamento dell'imposta, anche in caso di registrazione a mezzo procedura telematica, sicché in caso di omesso versamento l'Amministrazione finanziaria poteva legittimamente rivolgersi agli stessi, fermo restando il loro diritto di rivalersi in sede civile nei confronti del notaio;

Per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso gli acquirenti contribuenti.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso evidenziando che, in tema di imposta di registro, il notaio rogante che, in sede di rogito di compravendita immobiliare, si sia avvalso della procedura di registrazione telematica ai sensi del D.Lgs. n° 463/1997 è responsabile d'imposta, benché, ai sensi del D.P.R. n° 131/1986, art. 57, restino obbligate al pagamento del tributo le parti sostanziali dell'atto medesimo, alle quali, pertanto, è legittimamente notificato, in caso d'inadempimento, l'avviso di liquidazione.

Il ricorso ex lege alle modalità di registrazione telematica dell'atto e di versamento dei tributi su autoliquidazione del notaio, mediante il modello unico informatico (M.U.I.), hanno continuato gli Ermellini, costituisce un'applicazione meramente strumentale tecnologica ed evolutiva, propria della fase di registrazione dell'atto e riscossione delle imposte di registro, ipotecaria e catastale, con obiettivi di velocizzazione e semplificazione, che non ha mutato la natura della responsabilità giuridica del notaio per il pagamento delle imposte. Si tratta di una responsabilità che, per un verso, trova fondamento e ragione pratica nel ruolo di garanzia a lui assegnato, così da giustificare che egli intervenga nella sua qualità di responsabile d'imposta, ma dall'altro non toglie che il notaio,  ancorché pubblico ufficiale obbligato a richiedere la registrazione, rimanga estraneo al presupposto impositivo, che concerne unicamente le parti contraenti, e soltanto costoro, nel momento in cui partecipano alla stipulazione di un atto traslativo di ricchezza o regolativo di un affare al quale l'ordinamento riconduce un'espressione di capacità contributiva.

La ricostruzione che ha indotto la più recente dottrina a qualificare il notaio non come un responsabile d'imposta, ma piuttosto come una sorta di "mandatario nell'interesse del Fisco", e a sostenere l'efficacia liberatoria del pagamento eseguito dai contribuenti/contraenti (con riguardo alle imposte "autoliquidate") in mani del notaio, hanno concluso gli Ermellini, non merita di essere condivisa, in assenza di una norma derogatrice che espressamente sancisca l'efficacia liberatoria del pagamento eseguito dai contribuenti.

 

L’UTILIZZAZIONE DI FATTURE PER OPERAZIONI INESISTENTI E LA LORO INDICAZIONE IN DICHIARAZIONE CONFIGURA UNA FINALITÀ DI EVASIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – III SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 36207 DEL 6 OTTOBRE 2021

 

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 36207 del 6 ottobre 2021, ha statuito che i costi per operazioni che siano inesistenti non sono mai deducibili, e la loro indicazione in dichiarazione configura una chiara finalità di evasione e realizza un corrispondente profitto all’utilizzatore.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour, hanno confermato in toto il sequestro preventivo disposto dal Gip nell’ambito di un’indagine per il reato di cui all'art. 2 del Dlgs n. 74/2000 (id: Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti), a carico del legale rappresentante di una società a responsabilità limitata, a cui era stata contestata un’evasione dell’imposta sul valore aggiunto, realizzata avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti emesse da altra società, con relativa indicazione, nella dichiarazione dei redditi, di elementi passivi fittizi per i periodi d’imposta in contestazione.

Il contribuente, in dettaglio, si era rivolto alla Suprema Corte, per opporsi alla decisione del Tribunale del Riesame che aveva rigettato la sua istanza contro il decreto di sequestro, disposto in via diretta, sui beni della società e per equivalente, anche a suo carico, lamentando tra i motivi di doglianza, una violazione di legge relativamente all’importo oggetto della misura cautelare, atteso che la somma sequestrata era risultata pari all’Iva evasa. Infatti, a parere della difesa, il profitto del reato non poteva consistere in quest’ultimo importo ma occorreva fare riferimento solo all’entità del guadagno, con detrazione delle spese e di eventuali altri importi.

Con la sentenza de qua, gli Ermellini hanno ritenuto i motivi esposti del tutto generici, secondo i quali, in relazione al reato contestato, non avrebbero potuto essere presi in considerazione eventuali costi, consistendo, il profitto, nell’imposta utilizzata per il risparmio di spesa, portata in detrazione senza averla pagata, richiamando l’orientamento giurisprudenziale affermato in ambito penale in tema di utilizzazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti.

In nuce, per la S.C., i costi per operazioni che siano inesistenti, anche solo sul piano soggettivo, non sono mai deducibili, con la conseguenza che la loro indicazione in dichiarazione configura, in maniera inequivocabile, una finalità di evasione con la realizzazione di un corrispondente profitto. Ex adverso, è del tutto irrilevante la circostanza che, pur avendo sostenuto tali costi nei confronti del soggetto fittiziamente interposto, il destinatario della fattura sia tenuto a corrispondere nuovamente l'IVA al soggetto che realmente ha fornito la prestazione, atteso che ciò è la normale conseguenza di ogni interposizione fittizia. In pratica, la detrazione IVA può essere ammessa solo in presenza di fatture provenienti dal soggetto che effettua la cessione o la prestazione mentre non entrano nel conteggio del dare e avere ai fini IVA le fatture emesse da chi non è stato controparte nel rapporto relativo alle operazioni fatturate.

 

LA RINUNZIA DATORIALE AL PERIODO DI PREAVVISO NON LEGITTIMA LA RICHIESTA DEL DIPENDENTE ALL’INDENNITA’ SOSTITUTIVA.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 27934 DEL 13 OTTOBRE 2021

 

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 27934 del 13 ottobre 2021, ha rinsaldato la tesi della natura obbligatoria -e non reale- del preavviso nel contratto di lavoro a tempo indeterminato, donde la rinunzia datoriale non legittima la richiesta della relativa indennità sostitutiva da parte del lavoratore.

Il caso in esame ha riguardato la pretesa del lavoratore dimissionario all’indennità di preavviso in forza della rinunzia del periodo di preavviso da parte del datore di lavoro.

In entrambi i gradi di giudizio il datore di lavoro è risultato soccombente e, per l’effetto, debitore dell’indennità sostitutiva del preavviso, con conseguente integrazione del rateo di tredicesima mensilità e di TFR, oltre accessori.

Gli Ermellini, invece, dopo una disamina della ratio sottesa all’istituto del preavviso – che assolve alla funzione economica di attenuare le conseguenze pregiudizievoli della cessazione del contratto arrecate alla parte che subisce il recesso – hanno ribaltato i due gradi di merito.

A sostegno della propria pronunzia, gli Ermellini, ricorrendo ad una interpretazione letterale e logico-sistematica dell’art. 2118 c.c., in materia di recesso dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, hanno (ri)affermato la natura obbligatoria dell’indennità di mancato preavviso e, pertanto, il preavviso deve configurarsi quale mero obbligo dell’esercizio del recesso, con la conseguenza che la parte recedente è libera di scegliere tra prosecuzione del rapporto di lavoro fino al termine del preavviso o la corresponsione dell’indennità sostitutiva con risoluzione immediata del rapporto; mentre, in capo alla parte non recedente (nella specie il datore di lavoro) si configura un diritto di credito, come tale, liberamente rinunziabile.

In ragione di quanto precede, la parte non recedente, che rinunzia al periodo di preavviso, nulla deve alla controparte, la quale non può vantare alcun diritto alla prosecuzione del rapporto fino a termine del preavviso.

 

IL CCNL È APPLICABILE AL RAPPORTO DI LAVORO SULLA BASE DI COMPORTAMENTI CONCLUDENTI DEL DATORE DI LAVORO, INDIPENDENTEMENTE DALLA SUA ADESIONE ALL’ASSOCIAZIONE STIPULANTE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 28905 DEL 19 OTTOBRE 2021

 

La Corte di Cassazione, sentenza n. 28905 del 19 ottobre 2021, ha (ri)statuito che i contratti collettivi sono applicabili nei singoli rapporti di lavoro anche quando il datore di lavoro non sia iscritto alle associazioni dei datori di lavoro stipulanti, nel caso in cui l’adesione agli stessi risulti da fatti concludenti.

Nel caso de quo un lavoratore ricorreva in Tribunale, rivendicando il pagamento della parte variabile del premio di partecipazione, previsto dal contratto integrativo interaziendale.

I Giudici di merito, esprimendosi in favore del lavoratore, affermano che la società datrice, la quale lamentava di avere disdetto la propria adesione all'associazione nazionale di rappresentanza della parte datoriale, aveva comunque continuato ad erogare ai lavoratori dipendenti diverse voci retributive di carattere indennitario ed incentivante previste dal contratto integrativo, pertanto, appariva illegittimo il rifiuto di provvedere al pagamento di questa ulteriore somma. 

Il datore di lavoro, impugnava la sentenza in Cassazione. Quest’ultima, rigettando il ricorso, afferma che i contratti collettivi non dichiarati efficaci  erga omnes, ai sensi della Legge n. 741/1959, rappresentano atti aventi natura negoziale e privatistica, applicabili nei rapporti tra i soggetti che abbiano aderito alle associazioni stipulanti, oppure, in mancanza di tale condizione, vi abbiano esplicitamente aderito, ovvero li abbiano implicitamente recepiti per fatti concludenti, ossia ne abbiano comunque applicato le clausole ai singoli rapporti di lavoro per un prolungato periodo di tempo, senza alcuna contestazione.

Orbene, il comportamento tenuto dal datore di lavoro che, pur avendo disdetto formalmente la propria adesione all’associazione sindacale dei datori di lavoro anni addietro, aveva continuato ad erogare le somme previste dal contratto integrativo, rappresentava, a parere degli Ermellini, un comportamento concludente dal quale era possibile desumere l’intenzione del datore di lavoro di continuare ad applicare il contratto collettivo integrativo nei singoli rapporti.

Per le ragioni esposte, confermando la statuizione dei Giudici di merito, la Suprema Corte rigettava il ricorso del datore di lavoro.

 

Ad maiora

IL PRESIDENTE

EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 8 Novembre 2021