31 Ottobre 2022

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DELLA LAVORATRICE ASSENTE INGIUSTIFICATA CHE ERA ALL’ESTERO IN MALATTIA

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 24697/2022 DELL’11 AGOSTO 2022

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 24697 dell’11 agosto 2022, ha statuito che, a fronte di un’assenza ingiustificata del lavoratore, l’onere di provare la condotta che ha portato all’irrogazione della sanzione disciplinare è in capo al datore di lavoro che deve dimostrare il fatto nella sua oggettività. 

Nel caso in trattazione, una dipendente di una società di pulizie impugnava il licenziamento comminatole per motivi disciplinari, senza preavviso, per assenza ingiustificata dal 1° settembre al 19 ottobre 2016. La contestazione disciplinare era motivata dal non avere avvisato i suoi superiori e di non avere giustificato validamente la sua assenza. La donna, nel periodo in contestazione, si trovava, ammalata, nel suo Paese di origine, il Marocco, ed aveva inviato al datore di lavoro, a giustificazione della propria assenza, due certificati medici debitamente tradotti in italiano ma privi della “Apostille”, formalità richiesta dalla Convenzione dell'Aja del 5 ottobre 1961 ai fini dell'attestazione di veridicità della firma sull'atto.

La Corte d'Appello, in riforma della pronuncia del Tribunale di primo grado, dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimato, condannando la società alla reintegrazione della lavoratrice. Secondo i giudici, infatti, i certificati medici non rientravano tra gli atti per i quali è necessaria la suddetta “Apostille” e dunque si trattava di una ipotesi di assenza dal lavoro non regolarmente giustificata e non, come affermato dal datore, del tutto ingiustificata.

Avverso tale sentenza la società datrice proponeva ricorso per Cassazione. I Giudici supremi precisavano che l'Apostille è un timbro apposto dal governo di un Paese firmatario della Convenzione dell'Aja del 1961, allo scopo di riconoscere la qualità con cui opera il funzionario pubblico che ha sottoscritto il documento, la veridicità della firma e l'identità del timbro o del sigillo apposto al documento. La presenza di tale timbro non rende più necessaria la legalizzazione del documento da parte dell'autorità diplomatica del Paese di provenienza. Si tratta dunque di una certificazione che attesta l'autenticità formale e sostanziale di un documento avente valore giuridico in un paese straniero, pertanto il giudice di merito aveva erroneamente ritenuto che non fosse necessaria in caso di certificazione medica. I certificati che sono privi di detto sigillo non hanno valore giuridico in un Paese straniero, atteso che l'eventuale traduzione in italiano non ha alcuna rilevanza giuridica e, pertanto, risultano inidonei a giustificare l'assenza in quanto non risultano certificati tanto la provenienza dell'atto da un soggetto abilitato allo svolgimento della professione sanitaria, quanto la diagnosi e la prognosi di malattia come attestate da un soggetto competente.

Nel caso di specie la pronuncia impugnata risultava errata in diritto anche nella parte in cui si affermava che al datore di lavoro non sarebbe stato precluso di verificare, anche successivamente, la legittimità dell'assenza. In caso di assenza ingiustificata, infatti, sul datore di lavoro grava l'onere di provare la condotta che ha determinato l'irrogazione della sanzione disciplinare e, quindi, di provare il fatto nella sua oggettività, mentre grava sul lavoratore l'onere di provare gli elementi che possano giustificarlo (Cass. N.16597/2018; Cass. N.2988/2011). La Corte precisava, inoltre, che, era necessario considerare anche l'elemento soggettivo, da parte della lavoratrice, costituito dalla mancata conoscenza delle procedure necessarie per la validità dei certificati medici inviati dal Marocco che, se non in possesso dell'Apostille, comunque avrebbero dovuto essere "legalizzati", nelle forme ordinarie, a cura della locale rappresentanza diplomatica o consolare italiana.

Per questi motivi, il ricorso veniva accolto e la questione rinviata alla Corte d'Appello, in diversa composizione, per un nuovo esame alla luce dei principi indicati dalla Suprema Corte.

LA INDEBITA FRUIZIONE DI UN SOLO GIORNO DI PERMESSO SINDACALE, UTILIZZATO PER FINALITA' PERSONALI, INTEGRA LA GIUSTA CAUSA DEL LICENZIAMENTO.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N.26198 DEL 6 SETTEMBRE 2022.

La Corte di Cassazione – ordinanza n° 26198 del 6 settembre 2022 – ha statuito che l'utilizzazione del permesso sindacale per finalità diverse da quelle istituzionali costituisce abuso del diritto e pertanto rende più grave, sul piano disciplinare, la condotta del lavoratore.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di l'Aquila aveva confermato la sentenza di primo grado che aveva dichiarato la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore sulla base di contestazione che addebitava la indebita fruizione del permesso sindacale di cui alla Legge n°300/70, art. 30, utilizzato per finalità personali del tutto estranee a quella propria del permesso in oggetto; in particolare, la Corte di merito, premesso che la prova orale aveva confermato il fatto oggetto di addebito, aveva ritenuto che lo stesso non potesse essere sussunto fra le condotte non punibili con il licenziamento alla stregua del contratto collettivo applicabile, che sanzionava con il licenziamento solo l'assenza ingiustificata protratta per oltre cinque giorni.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il lavoratore censurando la sentenza impugnata per non avere ricondotto la concreta fattispecie (un solo giorno di lavoro) all'ipotesi dell'assenza ingiustificata punita con sanzione conservativa dal contratto collettivo.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso ed ha ribadito la ricostruzione fattuale e la qualificazione giuridica della condotta del dipendente in termini di abuso del diritto operata dalla sentenza impugnata la quale aveva accertato che il permesso in questione era stato consegnato, a mano, dal vice capo turno e che tale permesso era stato utilizzato impropriamente (prestazione di attività' lavorativa in favore dei terzi), ovvero per finalità diverse dalla previsione dell'art. 30 St. Lav. che riconosce ai componenti degli organi direttivi, provinciali e nazionali, delle associazioni di cui all'art. 19, il diritto a permessi retribuiti, secondo le norme dei contratti di lavoro, per la partecipazione alle riunioni degli organi suddetti. Pertanto, hanno continuato gli Ermellini, viene in rilievo non la mera assenza dal lavoro, ma un comportamento del dipendente connotato da un quid pluris rappresentato dalla utilizzazione del permesso sindacale per finalità diverse da quelle istituzionali; questo, hanno concluso gli Ermellini,  esclude la riconducibilità della condotta alle richiamate norme collettive che puniscono con sanzione conservativa l'assenza dal lavoro, la mancata presentazione o l'abbandono ingiustificato del posto di lavoro per un solo giorno.

LA FORMA SCRITTA DEL LICENZIAMENTO NON PUÒ ESSERE PROVATA PER TESTI

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 26532 DELL’8 SETTEMBRE 2022

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 26532 dell’8 settembre 2022, ha affermato che qualora la legge stabilisca per un determinato contratto la forma scritta ad substantiam, alla mancata produzione in giudizio del documento non può supplire la prova testimoniale, ostandovi il disposto espresso dell'art. 2725 del Codice civile.

Il caso esaminato ha riguardato l’impugnazione del licenziamento intimato alla lavoratrice in occasione di una riunione tenutasi nei locali aziendali alla presenza dell’amministratore delegato e di due dipendenti, ma senza la consegna di alcuna comunicazione scritta.

La Corte d’Appello accoglieva la predetta domanda, non avendo la società assolto l’onere di provare di aver adempiuto con la forma scritta richiesta ad substantiam e non essendo ammissibile la prova testimoniale sul punto.

I Giudici di Piazza Cavour, confermando la pronuncia di secondo grado, hanno rilevato, preliminarmente, che non è consentita la prova testimoniale di un contratto o di un atto unilaterale di cui la legge preveda la forma scritta a pena di nullità. Invero, fa eccezione a detta regola generale solo l’ipotesi prevista dall’art. 2724 n. 3 c.c., riguardante il caso in cui il documento sia andato perduto senza colpa (circostanza non verificatasi nella fattispecie in argomento).

Secondo i Giudici di legittimità, questo comporta, dunque, un divieto di testimonianza che – attenendo a norma di ordine pubblico – ne importa inammissibilità rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio.

Su tali presupposti, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso della società, confermando l’annullamento del licenziamento dalla stessa irrogato.

IL FISCO PUÒ ESSERE CONDANNATO A RISARCIRE IL CONTRIBUENTE SE LA PRETESA ERARIALE SI RIVELA TEMERARIA E IL GIUDICE TRIBUTARIO PUÒ LIQUIDARE IL DANNO ALLA PARTE PRIVATA

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 26920 DEL 13 SETTEMBRE 2022

La Corte di Cassazione ha statuito che il fisco può essere condannato a risarcire il contribuente se la pretesa erariale si rivela alquanto temeraria, e pertanto il Giudice Tributario può liquidare il danno alla parte privata che vince la causa contro le Entrate, se la condotta dell'Amministrazione risulta connotata da malafede ovvero da colpa grave.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour hanno accolto in toto il ricorso di un contribuente, che chiedeva i danni morali e materiali dopo l’annullamento in modo definitivo dell'accertamento sintetico, con il quale veniva presunto un maggior reddito imponibile dal mero possesso di varie auto, ed il risarcimento richiesto veniva negato sul rilievo che la tutela apprestata dall'art. 96 Cpc non potrebbe essere azionata in una sede diversa dal processo in cui è fatta valere la domanda principale.

Con l’ordinanza de qua, gli Ermellini hanno evidenziato che l'art. 96 Cpc non detta una regola sulla competenza, ma disciplina piuttosto “un fenomeno endoprocessuale”, obbligando a proporre la relativa domanda, soltanto nello stesso giudizio dal cui esito si deduce l'insorgenza della responsabilità processuale, in quanto nessun Giudice può giudicare la temerarietà dell'azione meglio di quello che decide sulla domanda che si assume pretestuosa.

Per i Giudici del Palazzaccio la valutazione della responsabilità processuale è strettamente legata alla decisione di merito, in quanto si potrebbe arrivare a un contrasto pratico di giudicati se il presupposto per la condanna fosse valutato separatamente. Il principio vale per tutte le ipotesi disciplinate dall'art. 96 Cpc compreso l'abuso del processo previsto dal terzo comma, secondo cui in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'articolo 91, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.

In nuce, per la S.C., l'istanza sulla condanna per lite temeraria può, comunque, essere proposta in un giudizio autonomo se risulta impossibile, di fatto o di diritto, avanzarla in sede di cognizione, ossia nel giudizio presupposto.

LA DETRAZIONE DELL’IVA NON DECADE PER LA MANCATA PRESENTAZIONE DELLA DICHIARAZIONE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA 27814 del 22/09/2022

La Corte di Cassazione ha stabilito con sentenza 27814 che il principio di neutralità dell’Imposta sul Valore Aggiunto implica che il diritto alla detrazione, ed al conseguente utilizzo del credito, non vengono meno per la sola omissione della presentazione della dichiarazione IVA.

Nel caso in questione l’Agenzia delle Entrate aveva recuperato e sottoposto a sanzione, nei confronti di una società, l’utilizzo in compensazione del credito IVA dell’anno d’imposta 2004 per il fatto che la società contribuente aveva omesso la presentazione della dichiarazione IVA.

La Commissione Tributaria Provinciale, appurato che la società aveva correttamente presentato le dichiarazioni IVA periodiche ma omesso la presentazione della Dichiarazione Annuale, aveva ritenuto, rilevato che dalle dichiarazioni periodiche risultava correttamente esposto il credito richiesto, corretta l’interpretazione della società contribuente, che aveva utilizzato tale credito in compensazione.

Di diverso avviso era stata invece la Commissione Tributaria Regionale, che con la decisione oggetto di ricorso in Cassazione, aveva disconosciuto il credito scaturente dalle liquidazioni periodiche per sopravvenuta decadenza derivante dall’omissione della dichiarazione annuale, pur valutando che non dovessero essere applicate le sanzioni inerenti l’indebito utilizzo.

Risolve la questione il giudice di ultime cure, con la sentenza in parola, evidenziando che nel caso in specie vada valutata la disciplina comunitaria dell’IVA. In particolare essa è da intendere nel senso dell’assoluta neutralità dell’imposta, a prescindere dagli obblighi formali imposti dai singoli Stati, giacché “il diritto spettante ai soggetti passivi di detrarre dall'IVA di cui sono debitori l’IVA dovuta o assolta per i beni da essi acquistati e per i servizi da essi ricevuti a monte costituisce un principio fondamentale del sistema comune dell'IVA attuato dalla normativa dell'Unione (sentenza Tóth, C-324/11, EU:C:2012:549, punto 23 e giurisprudenza ivi citata)”e che “il principio fondamentale di neutralità dell'IVA esige che la detrazione dell'imposta a monte sia accordata se gli obblighi sostanziali sono soddisfatti, anche se taluni obblighi formali sono stati omessi dai soggetti passivi”.

In tal senso, rilevano gli Ermellini, è ininfluente che uno Stato membro imponga la presentazione di una dichiarazione per il riconoscimento della detrazione, giacché “tale diritto costituisce parte integrante del meccanismo dell'IVA e, in linea di principio, non può essere soggetto a limitazioni” quali appunto la presentazione della dichiarazione.

Rilevano infatti i Giudici che assume rilevanza esclusivamente la dimostrazione che l’IVA versata dalla contribuente sia detraibile se vengono soddisfatti gli obblighi sostanziali, da che il diritto alla detrazione dell’IVA, ed al conseguente utilizzo dell’eccedenza a credito, sarebbe stato contestabile solo ove si fosse dimostrato che tale detrazione fosse stata esclusa in concreto, e non per la sola omissione della dichiarazione annuale.

Nel caso in specie, anche per la presenza delle liquidazioni periodiche, l’Agenzia delle Entrate non aveva mai sollevato contestazioni sulla esistenza sostanziale del credito IVA della società, e risolve quindi la Corte di Cassazione in favore della società contribuente.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO


(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 31 Ottobre 2022