12 Dicembre 2016

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE BANCARIO ARRESTATO PER SPACCIO DI DROGA ANCHE SE L'ATTIVITA' ILLECITA E’ STATA POSTA IN ESSERE AL DI FUORI DELL'AMBIENTE LAVORATIVO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 24023 DEL 24 NOVEMBRE 2016

La Corte di Cassazione, sentenza n° 24023 del 24 novembre 2016, ha nuovamente statuito che il licenziamento del dipendente per giusta causa è da ritenersi pienamente legittimo anche se il comportamento che ha provocato l'irrimediabile lesione del vincolo fiduciario con il proprio datore è del tutto avulso dal rapporto di lavoro.

Nel caso in disamina, un dipendente di un Istituto di credito veniva arrestato per detenzione e spaccio di marijuana in quanto “pizzicato” in possesso di oltre un kg. di sostanza stupefacente. A seguito dell’applicazione della misura detentiva, l'azienda datrice di lavoro intimava il licenziamento per giusta causa ritenendo definitivamente compromesso il rapporto fiduciario fra le parti.

Il prestatore adiva la Magistratura trovando pieno soddisfo alle proprie richieste sia in I° grado che in appello.

L'Istituto di credito ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nel ribaltare integralmente il deliberato dei gradi di merito, hanno evidenziato che il licenziamento per giusta causa può essere motivato anche da comportamenti extra lavorativi del dipendente tali da ledere in modo irrimediabile il vincolo fiduciario fra le parti, tenendo in debita considerazione, nella valutazione della gravità del “fatto”, l'attività lavorativa posta in essere sia dall'azienda che dal subordinato.

Pertanto, atteso che nel caso de quo il prestatore era un addetto allo sportello di un Istituto di credito, avente contatto diretto con il pubblico, che il suo arresto per droga aveva avuto un notevole risalto mediatico, e che l'ingente quantitativo di marijuana sequestrato faceva propendere per una sua particolare vicinanza agli ambienti della malavita organizzata, i Giudici di Piazza Cavour hanno accolto il ricorso sancendo la legittimità dell'atto di recesso datoriale anche se ascrivibile, esclusivamente, a comportamenti del dipendente del tutto avulsi dalla abituale  prestazione lavorativa.

È LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL LAVORATORE CHE CON IL PROPRIO COMPORTAMENTO OSTRUZIONISTICO DISATTENDE ALLA DISPOSIZIONE AZIENDALE DEL TRASFERIMENTO AD ALTRA SEDE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 23656 DEL 21 NOVEMBRE 2016

La Corte di Cassazione, sentenza n° 23656 del 21 novembre 2016, ha statuito la legittimità di un licenziamento per giusta causa comminato ad un lavoratore per non aver ottemperato alla richiesta aziendale di produrre i documenti necessari e propedeutici al trasferimento ad altra sede.

Nel caso in specie, la Corte d'Appello di Roma, confermando il giudizio di primo grado, rigettava il ricorso di un lavoratore con qualifica di guardia giurata che, destinato ad altra sede lavorativa, all’esito di un programma di riorganizzazione aziendale post Cigs, aveva scientemente ostacolato il trasferimento evitando di produrre i documenti necessari per l’ottenimento del decreto prefettizio, indispensabile per rendere la prestazione nella nuova sede assegnata.

Contro la sentenza ha proposto ricorso il lavoratore rimarcando, tra l'altro, che la società datrice non aveva dato corso al trasferimento di altri addetti impiegati nella provincia di Roma i quali avevano continuato a godere del trattamento Cigs, talché, il mancato trasferimento del ricorrente non aveva comportato pregiudizio all’organizzazione aziendale.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ponendo in rilievo la contrarietà ai principi di correttezza e buona fede risultanti dal comportamento tenuto dal lavoratore. Nella fattispecie, infatti, il lavoratore, piuttosto che impugnare il provvedimento di trasferimento nei modi legittimi, era rimasto intenzionalmente inadempiente ad una disposizione aziendale solo preliminare al programmato e preannunciato trasferimento, al fine di impedire l’adozione del relativo provvedimento.

Pertanto, hanno concluso gli Ermellini, la gravità della condotta perpetrata, oltre ad integrare la legittimità del licenziamento disciplinare, anche con riferimento al profilo attinente la proporzionalità della sanzione adottata, fa ritenere irrilevanti gli elementi addotti dal lavoratore di cui si è affermata l’omessa considerazione da parte della Corte territoriale.

IL VERO RESPONSABILE DEL REATO DI OMESSO VERSAMENTO DELL’IVA E’ L’AMMINISTRATORE DI FATTO CHE EFFETTIVAMENTE GESTISCE LA SOCIETA’.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 47239 DEL 10 NOVEMBRE 2016

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 47239 del 10 novembre 2016, ha statuito che per il reato di omesso versamento dell’IVA è responsabile chi effettivamente gestisce la società, cioè colui che quotidianamente attiene a tutti gli atti di ordinaria amministrazione della stessa, in quanto nel delitto di omesso versamento dell’IVA “il dato fattuale della gestione sociale deve prevalere su quello solo formale”.

Nel caso in specie, ad una società veniva contestato il reato di omesso versamento dell’IVA (ex articolo 10-ter, D.Lgs. n.74/2000).

La decisione di primo grado e la successiva sentenza della Corte d’Appello ritenevano che il reato di omesso versamento dell’IVA fosse stato correttamente contestato all’amministratore di fatto della società, in concorso con il legale rappresentante, dal momento che lo stesso amministratore di fatto, oltre a essere fisicamente presente nella sede dell’azienda, intratteneva in concreto i rapporti commerciali con le altre aziende, con i clienti ed i fornitori.

L’imputato proponeva ricorso per Cassazione, eccependo, tra gli altri motivi, la nullità della sentenza e ritenendo che il responsabile del delitto contestato, trattandosi di reato proprio, fosse esclusivamente l’amministratore di diritto.

Orbene, la Suprema Corte con la sentenza de qua ha giudicato inammissibile il ricorso per manifesta infondatezza dei motivi con la conferma della condanna a carico dell’amministratore di fatto dell’impresa. 

In particolare gli Ermellini, hanno spiegato che nei reati tributari, ai fini dell’attribuzione a un soggetto della qualifica di amministratore “di fatto”, non occorre “l’esercizio di tutti i poteri tipici dell’organo di gestione, ma è necessaria un significativa e continua attività gestoria, svolta cioè in modo non episodico o occasionale” (Cass. sent. n. 22108/2014).

Pertanto, i Giudici di Piazza Cavour, hanno affermato cheil vero soggetto responsabile non è il prestanome ma colui il quale effettivamente gestisce la società perché solo lui è in condizione di compiere l'azione dovuta (il pagamento delle imposte, IVA nel nostro caso) mentre l'estraneo è il prestanome (amministratore sulla carta). A quest'ultimo una corresponsabilità può essere imputata solo in base alla posizione di garanzia di cui all'art. 2392 cod. civ., in forza della quale l'amministratore deve conservare il patrimonio sociale e impedire che si verifichino danni per la società e per i terzi”.

LA IRREGOLARE TENUTA DEL LIBRO DEGLI INVENTARI LEGITTIMA L’ACCERTAMENTO INDUTTIVO.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 24016 DEL 24 NOVEMBRE 2016

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 24016 del 24 novembre 2016, ha statuito che l'indicazione in bilancio e nel libro degli inventari delle rimanenze di merci non distinte per categorie omogenee, senza la conservazione delle distinte, è un’irregolarità della contabilità idonea a legittimare l'accertamento induttivo ex art. 39 D.P.R. n. 600/73.

IL FATTO

A carico di una società, l’Agenzia delle Entrate provvedeva ad emettere avviso d’accertamento, dopo che una verifica espletata dalla G.d.F. aveva fatto emergere l'indicazione in bilancio e nel libro degli inventari delle rimanenze di merci non distinte per categorie omogenee, senza anche la conservazione delle distinte, con conseguenziale contestazione di omessa registrazione di corrispettivi, oltre un’indebita deduzione di costi non documentati.

La società provvedeva prontamente ad impugnare l’avviso d’accertamento dinanzi alla giustizia tributaria risultando soccombente in primo grado e vincitrice in appello.

In particolare la C.T.R. riteneva viziato l’operato dell’Amministrazione finanziaria avendo quest’ultima proceduto a una ricostruzione induttiva del reddito d’impresa in assenza dei presupposti di legge, posto che una mancata indicazione delle rimanenze di merci nell’inventario non distinte per categorie omogenee non costituisse una grave irregolarità contabile.

Da qui, il ricorso per Cassazione dell’Agenzia delle Entrate.

Orbene, gli Ermellini, con la sentenza de qua, hanno ritenuto corretto l’operato dell’Amministrazione finanziaria sull’assunto che le c.d. scritture ausiliarie di magazzino, sono espressamente previste dall’art. 15 co. 2 del D.P.R. n.600/73 che prescrive che "l'inventario, oltre agli elementi prescritti dal codice civile o da leggi speciali, deve indicare la consistenza dei beni raggruppati in categorie omogenee per natura e valore e il valore attribuito a ciascun gruppo. Ove dall'inventario non si rilevino gli elementi che costituiscono ciascun gruppo e la loro ubicazione, devono essere tenute a disposizione dell'ufficio delle imposte le distinte che sono servite per la compilazione dell'inventario".

All’uopo, si segnala come già in precedente giurisprudenza di legittimità, si sia affermato il principio di diritto in base al quale in caso di omessa presentazione del prospetto analitico delle rimanenze iniziali e finalil'ufficio può procedere ad accertamento di tipo induttivo, attraverso una determinazione della percentuale di ricarico dei prezzi di vendita rispetto a quelli di acquisito. L'omissione delle scritture ausiliarie di magazzino, infatti, generando un impedimento alla corretta analisi dei contenuti dell'inventario, rifluisce indubbiamente sulla possibilità per gli accertatori di ricostruire analiticamente i ricavi di esercizio e determina perciò quella inattendibilità complessiva delle scritture contabili’ che è presupposto normativamente previsto ai fini del ricorso alla modalità induttiva dell'accertamento” (cfr. Cass. n. 14501/2015; Cass. n. 7653/2012; Cass. n. 16499/2006 e Cass. n. 13816/2003).

IL REALE COMPORTAMENTO DELLE PARTI RAPPRESENTA LA CHIAVE INTERPRETATIVA DEL CONTRATTO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 24560 DEL 1° DICEMBRE 2016

La Corte di Cassazione, sentenza n° 24560 del 1° dicembre 2016, facendo riferimento all'art. 1362 del c.c. ha ricordato che il comportamento delle parti è da intendersi integrativo al contenuto letterale del testo, ovvero concorre in via paritaria e giammai in modo alternativo o sussidiario.

Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale di Velletri, aveva dichiarato illegittimo un licenziamento intimato ad un dirigente perché comminato oltre la scadenza del periodo di prova, con conseguente condanna al pagamento dell’indennità sostitutiva di preavviso ai sensi dell’art. 19 del CCNL dirigenti industriali, oltre al premio incentivazione e rimborsi spese. La società proponeva ricorso in Cassazione basandosi su cinque motivi.

Di particolare interesse è il primo motivo posto a base del ricorso, secondo cui il contratto individuale stipulato in data 10 gennaio 2005, pur indicando la decorrenza della prova dalla medesima data, di fatto era concretamente iniziato il giorno 13 gennaio 2005, con evidente posticipazione del termine del periodo di prova.

Nel caso de quo, gli Ermellini, hanno ritenuto fondato il primo motivo posto a base del ricorso, ed assorbente i successivi 2 motivi, in quanto secondo l’art. 1362 del c.c. l’interpretazione letterale del testo non può prescindere dalla comune intenzione delle parti e dal comportamento comunemente tenuto dalle stesse. Difatti, il tenore letterale di un testo non può assumere un rilievo fondamentale nella ricostruzione del contenuto dell’accordo, se non dopo un processo interpretativo. Inoltre, tale processo interpretativo non può limitarsi alle sole parole utilizzate ma, necessita di considerare tutti gli elementi testuali e non ed in particolare al comportamento delle parti.

  Ad maiora

 IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

     Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 12 Dicembre 2016