19 Novembre 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

COEFFICIENTE ISTAT MESE DI OTTOBRE 2018

E’ stato reso noto l’indice Istat ed il coefficiente per la rivalutazione del T.F.R. relativo al mese di Ottobre 2018. Il coefficiente di rivalutazione T.F.R. Ottobre 2018 è pari a 2,214392 e l’indice Istat è 102,40 (invariato rispetto al mese precedente).

 

LA TEMPESTIVITA’ DELLA CONTESTAZIONE DISCIPLINARE DEVE ESSERE VALUTATA AVENDO RIGUARDO (ANCHE) ALLA COMPLESSITA’ DELLE INDAGINI DA EFFETTUARE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 27238 DEL 26 OTTOBRE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 27238 del 26 ottobre 2018, ha (ri)statuito che per valutare correttamente la tempestività della contestazione disciplinare ex art. 7 della L. n° 300/70 è necessario far riferimento alla complessità delle indagini da effettuare in relazione all’addebito da muovere al prestatore non trascurando di ponderare nel modo corretto sia l’articolazione dell’organizzazione aziendale che la sua struttura gerarchica.

Nel caso di specie, una dipendente di Poste Italiane Spa veniva licenziata per alcune attività poste in essere in contrasto con le regole aziendali e per non aver segnalato le gravi inadempienze di un suo superiore gerarchico. La contestazione disciplinare si riferiva a fatti commessi a partire dal giugno 2012 ma veniva notificata solo a fine marzo 2013. All’esito del procedimento disciplinare il datore irrogava il licenziamento per giusta causa.

La dipendente impugnava il licenziamento sia nel merito delle motivazioni, non ritenendole tali da poter configurare una giusta causa di licenziamento, sia per la tardività della contestazione disciplinare.

Attesi i contrasti dei gradi di merito, la dipendente ricorreva in Cassazione.

Orbene gli Ermellini, nel dichiarare illegittimo il licenziamento per giusta causa in quanto le motivazioni poste a fondamento dell’atto di recesso, come già sancito dai Giudici della Corte territoriale, non erano così gravi come rappresentate dall’azienda, hanno colto l’occasione per evidenziare che l’immediatezza della contestazione disciplinare si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo l’addebito non grave o comunque non meritevole della massima sanzione. Il criterio dell’immediatezza deve essere inteso in senso relativo potendo, nei casi concreti, essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, necessario per l’accertamento e la valutazione dei fatti specie nei casi in cui il comportamento del lavoratore consista in una serie di atti convergenti in un’unica condotta ovvero quando la complessità dell’organizzazione aziendale e della relativa scala gerarchica comportino la mancanza di un diretto contatto del dipendente con la persona titolare dell’organo abilitato ad esprimere la volontà imprenditoriale di recedere.

Pertanto, atteso che nel caso de quo il dipendente prestava la propria attività per Poste Italiane Spa, azienda particolarmente complessa sotto il profilo organizzativo e gerarchico, e che le indagini erano state particolarmente articolate ed erano durate diversi mesi, i Giudici di Piazza Cavour hanno rigettato l’eccezione della tardività della contestazione confermando però l’illegittimità del recesso datoriale per la tenue gravità delle infrazioni non sufficiente a configurare una lesione irrimediabile del vincolo fiduciario fra le parti.

 

IL DATORE DI LAVORO UNA VOLTA ESERCITATO VALIDAMENTE IL POTERE DISCIPLINARE IN RELAZIONE A DETERMINATI FATTI COSTITUENTI INFRAZIONI, NON PUO' ESERCITARE PER GLI STESSI FATTI IL MEDESIMO POTERE ORMAI CONSUMATO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 26815 DEL 23 OTTOBRE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 26815 del 23 ottobre 2018, ha (ri)confermato il divieto di esercitare due volte il potere disciplinare ex art. 2106 c.c. da parte del datore di lavoro per uno stesso fatto, sotto il profilo di una sua diversa valutazione o configurazione giuridica.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Venezia aveva respinto il reclamo proposto avverso la sentenza del Tribunale di Padova che, pronunciando in merito al licenziamento intimato ad un direttore di filiale di una banca, aveva dichiarato la nullità del recesso. La corte distrettuale premetteva che il lavoratore era già stato licenziato con atto successivamente annullato in sede giudiziale. La parte datoriale aveva perciò consumato, con la sanzione annullata, il potere disciplinare in ordine ai fatti oggetto del successivo recesso. In particolare, la banca con il primo licenziamento aveva contestato al dipendente, titolare di filiale, l'abituale condotta di incaricare i colleghi a "fare la spesa per suo conto", durante l'orario di servizio, ovvero di timbrare la sua presenza in ufficio nonostante l'assenza dai locali della filiale. La nuova contestazione faceva riferimento a comportamenti meramente esplicativi ed a singoli episodi della stessa "abitualità" originariamente addebitata.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la banca sostenendo che la sentenza passata in giudicato aveva accertato l'insussistenza di una "prassi" (id abitualità) di generale supremazia del dipendente e non di singoli episodi che non erano stati indicati nelle loro specifiche coordinate spazio-temporali.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso statuendo che, nel caso in specie, il secondo procedimento disciplinare, promosso dopo l'esaurimento del primo, rappresentava un'inammissibile duplicazione. Invero, hanno premesso gli Ermellini, in forza del generale principio "ne bis in idem" (ricavabile dal testuale disposto degli artt. 90 c.p. e 39 c.p.c.) comune a tutti i rami del diritto, il potere di provocare una modificazione nel mondo giuridico dopo che sia stato efficacemente esercitato, dando luogo a quel mutamento, viene a mancare del suo oggetto, e quindi si estingue per consunzione.

In particolare, il datore di lavoro, una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro subordinato in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, non può esercitare una seconda volta, per quegli stessi fatti, il detto potere ormai consumato, essendogli consentito soltanto di tener conto delle sanzioni eventualmente applicate, entro il biennio, ai fini della recidiva. Tale principio risulta altresì applicabile, hanno concluso gli Ermellini, anche quando, come nel caso in specie, il primo procedimento aveva riguardato la contestazione del modus operandi del direttore di filiale, denotante un atteggiamento perdurante di grave scorrettezza nella gestione del suo ufficio, mentre, il secondo procedimento, oggetto dell'attuale giudizio, aveva riguardato i singoli episodi in cui quel modus operandi si era manifestato.

 

PER LA CONFIGURAZIONE DEL REATO DI OMESSO VERSAMENTO DELL’IVA DEVE TENERSI CONTO SOLO ED ESCLUSIVAMENTE DELL’IVA EVASA E NON ANCHE DEGLI INTERESSI DOVUTI PER IL VERSAMENTO TRIMESTRALE

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 46953 DEL 16 OTTOBRE 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 46953 del 16 ottobre 2018, ha statuito il principio secondo cui per valutare il raggiungimento della soglia di punibilità di euro 250.000 ai fini della configurabilità del reato di omesso versamento dell’IVA, deve tenersi conto solo ed esclusivamente dell’IVA evasa e non anche degli interessi dovuti per il versamento trimestrale.
Nel caso in specie, un imprenditore veniva condannato dal Tribunale per omesso versamento IVA pari a 250.808 euro, comprensivo degli interessi passivi dovuti per la liquidazione trimestrale, sentenza confermata anche in appello, da qui il ricorso per Cassazione.

All’uopo si ricorda che con la modifica normativa intervenuta con il D.Lgs. n. 158/2015, il novellato art. 10-ter del D.Lgs. 74/2000, prevede la configurabilità del reato di omesso versamento IVA oltre la soglia dei 250mila euro, rispetto al vecchio limite dei 50mila euro.

Nel ricorrere alla Cassazione l’imprenditore denunciava violazione di legge e vizio di motivazione evidenziando come gli interessi non fossero da considerare voce d'imposta e che l'imposta a debito fosse di soli 248.325,00 e, pertanto, a seguito delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 158 del 2015, art. 8, comma 1 al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter, il fatto non fosse più previsto dalla legge come reato in ragione della nuova soglia di punibilità di Euro 250.000,00.

Orbene, gli Ermellini, con la sentenza de qua hanno accolto in toto il ricorso dell’imprenditore chiarendo prima di tutto che per imposta evasa debba intendersi ai sensi del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, comma 1, lett. f), “la differenza tra l'imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione, ovvero l'intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione, al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta o comunque in pagamento di detta imposta prima della presentazione della dichiarazione o della scadenza del relativo termine; non si considera imposta evasa quella teorica e non effettivamente dovuta collegata a una rettifica in diminuzione di perdite dell'esercizio o di perdite pregresse spettanti e utilizzabili", e pertanto nel calcolo dell’imposta devono certamente detrarsi gli interessi pagati per il versamento trimestrale, che nel caso in esame erano quantificati in € 2.483,00, così come riportato nella dichiarazione al rigo VL 36.

Infin,e i Giudici di Piazza Cavour hanno precisato che nel reato di omesso versamento di IVA, previsto dall’art. 10-ter del D.Lgs. n. 74 del 2000, il superamento della soglia di punibilitàfissata, in 250.000 euro, in seguito alle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 158 del 2015non configura una condizione oggettiva di punibilità, bensì un elemento costitutivo del reato, con la conseguenza che la sua mancata integrazione comporta l’assoluzione con la formula “il fatto non sussiste”.

Nel caso qui in esame, dunque, l’imprenditore è stato assolto, perché la somma omessa, detratti gli interessi trimestrali risultava di soli 248.325 euro e perciò il fatto non sussiste, mancando l’elemento oggettivo del reato, che si configura solo per omessi versamenti superiori a 250.000 euro.

 

IL DIRITTO AL RIMBORSO IVA DEL CONTRIBUENTE NON PUÒ ESSERE INFICIATO DA CARICHI PENDENTI CON IL FISCO

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 27784 DEL 31 OTTOBRE 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 27784 del 31 ottobre 2018, ha statuito che il contribuente ha diritto a essere rimborsato del credito Iva pur se ha carichi pendenti con il Fisco, e solo un'inchiesta penale può essere considerata un motivo ostativo e precludere il beneficio all'imprenditore.

Il caso di specie riguarda il ricorso da parte di una società contribuente contro il provvedimento con cui l'Amministrazione Finanziaria aveva disposto la sospensione del rimborso di crediti IVA per l'esistenza di carichi pendenti definiti ostativi, i cui ruoli erano, tuttavia, stati oggetto di sgravio in esecuzione di una sentenza non ancora passata in giudicato.

Con la sentenza de qua, i Giudici di Piazza Cavour, in controtendenza rispetto a precedenti decisioni della stessa Corte (id: Cass. Sent. n. 25893/2017), hanno respinto le doglianze dell'Agenzia delle Entrate richiamando per interpretazione l'art. 38-bis del D.P.R. n.633 del 1972, dove non è prevista che l'esistenza di carichi pendenti fiscali giustifichi la sospensione di un rimborso IVA. Ex adverso, l'unica eccezione che, nelle varie versioni della disposizione che si sono succedute negli anni, giustifica la sospensione del rimborso è quella di un procedimento penale a carico del contribuente, ed in tal caso, il rimborso può essere sospeso fino alla definizione del procedimento suddetto.

Nello specifico, gli Ermellini hanno messo in risalto come la tutela dell'interesse dello Stato nell'esecuzione del rimborso in parola sia affidata a un sistema basato sulla prestazione di garanzie e non può essere prevista, quindi, alcuna sospensione dello stesso per carichi fiscali pendenti, rimarcando, come negli atti di causa in quaestio non siano presenti procedimenti penali nei confronti dei legali rappresentanti della società contribuente.

In nuce, per la S.C., la norma richiamata rappresenta una sorta di sistema chiuso e specifico in tema di rimborsi IVA, il quale, proprio attraverso un articolato sistema di garanzie, tende a tutelare l'interesse dell'Erario all'eventuale recupero di quanto dovesse risultare indebitamente percepito dal contribuente, prevedendo, appunto, una specifica garanzia in favore dell'Amministrazione, e preclude, pertanto, l'applicazione a detti rimborsi dell'istituto del fermo amministrativo, e la disposizione, in quanto speciale, deve essere ritenuta prevalente su altre norme tendenti, in vari modi, ad assicurare garanzie all'Erario a fronte di pagamenti da esso effettuati.

 

LA SOTTOSCRIZIONE DEL CEDOLINO NON HA VALORE DI QUIETANZA INCOMBENDO SUL DATORE L’ONERE DI PROVARE L’EFFETTIVO PAGAMENTO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 28029 DEL 2 NOVEMBRE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 28029 del 2 novembre 2018, ha statuito che la sottoscrizione del cedolino paga ha solo la funzione di dimostrare l’avvenuta consegna del foglio paga ma non dimostra l’avvenuto pagamento, pur in presenza della formula “per ricevuta”.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Palermo, in conferma della sentenza di primo grado, riteneva che l’apposizione della firma in calce ai cedolini aveva la sola efficacia di dimostrare l’avvenuta consegna del foglio paga e non di quietanza del pagamento, spettando al datore di lavoro l’onere della prova circa l’avvenuto pagamento. Riguardo poi al pagamento del TFR, i Giudici hanno escluso che le cifre riportate su due fogli di un’agenda prodotta dal datore di lavoro, e prive di una causale, potessero dimostrare l’avvenuto pagamento.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, in linea con il ragionamento logico giuridico dei Giudici di merito, hanno ribadito l’orientamento ormai consolidato, in linea anche con la disposizione di cui alla legge di Bilancio del 2018, secondo cui la sottoscrizione del cedolino paga, pur se sottoscritto in presenza della formula “per ricevuta”, non costituisce prova dell’avvenuto pagamento bensì della (sola) mera consegna del cedolino. Spetta dunque al datore di lavoro la dimostrazione dell’avvenuto pagamento. Non vi è dunque presunzione assoluta di corrispondenza fra la retribuzione percepita e quella indicata sui prospetti paga.

 Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

 

Condividi:

Modificato: 19 Novembre 2018