18 Novembre 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….


COEFFICIENTE ISTAT MESE DI OTTOBRE 2019

E’ stato reso noto l’indice Istat ed il coefficiente per la rivalutazione del T.F.R. relativo al mese di Ottobre 2019. Il coefficiente di rivalutazione T.F.R. Ottobre 2019 è pari a 1,470372 e l’indice Istat è 102,40.

 

L'IMPOSSIBILITA' SOPRAVVENUTA ALL'ASSISTENZA DEL DISABILE DA PARTE DEL DIPENDENTE FRUITORE DI PERMESSI EX ART. 33 L. 104/92 NON LEGITTIMA IL LICENZIAMENTO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 26956 DEL 22 OTTOBRE 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 26956 del 22 ottobre 2019, ha statuito che l'impossibilità sopravvenuta per ragioni gravi ed eccezionali, intervenuta durante la fruizione di permessi ex art. 33, comma 3, legge n°104/1992, non integra la possibilità da parte datoriale di intimare il provvedimento del licenziamento per giusta causa.

Nel caso de quo, un dipendente in permesso per l'assistenza al padre disabile, al verificarsi di un imprevisto (infiltrazioni d'acqua nell'immobile di proprietà) era stato costretto a trascurare l'assistenza per dedicarsi agli urgenti lavori di manutenzione della propria abitazione.

La Corte di Appello di Salerno aveva respinto il reclamo della società datrice avverso la sentenza di primo grado che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento disciplinare intimato al lavoratore e condannato la società alla reintegrazione dello stesso nel posto di lavoro, con conseguente pagamento di un'indennità pari a cinque mensilità, oltre accessori ed al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento alla effettiva reintegrazione. La conferma della illegittimità del licenziamento, fondato sulla contestazione di non avere utilizzato i tre giorni di permesso mensile ex legge n°104/1992, era stata motivata con la considerazione che la fattispecie in esame non appariva, in concreto, di gravità tale da giustificare la risoluzione del rapporto.

Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso la società datrice deducendo che il dipendente aveva riconosciuto il fatto materiale ascritto, confermando di non avere prestato assistenza continua al genitore nei tre giorni oggetto di permesso retribuito.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso evidenziando che il permesso mensile retribuito ex legge n°104/1992 costituisce espressione dello Stato sociale che eroga una provvidenza in forma indiretta, tramite facilitazioni e incentivi ai congiunti che si fanno carico dell'assistenza di un parente disabile grave. Trattasi di uno strumento di politica socio-assistenziale, che è basato sul riconoscimento della cura alle persone con handicap in situazione di gravità prestata dai congiunti e sulla valorizzazione delle relazioni di solidarietà interpersonale ed intergenerazionale.

E' escluso altresì, hanno continuato gli Ermellini, che alla fruizione del permesso possa connettersi una funzione meramente compensativa o di ristoro delle energie impiegate dal dipendente per l'assistenza prestata al disabile o, comunque, la possibilità di utilizzare il permesso per esigenze diverse da quelle per le quali è stato concesso.

La sentenza impugnata, hanno argomentato gli Ermellini, non si pone in contrasto con i principi sopra enunciati nel puntualizzare il dovere del lavoratore di non abusare dei permessi in un'ottica di correttezza e buona fede,  riconoscendo che l'uso improprio del permesso può giustificare la sanzione espulsiva; tuttavia, considerato che non vi era prova del venir meno dell'assistenza per l'intero giorno,  la conferma della illegittimità del licenziamento è stata frutto della ritenuta non proporzionalità della sanzione espulsiva.

La sentenza impugnata ha infatti ritenuto "non adeguatamente contestata, né comunque smentita da contrari elementi probatori, la natura imprevista ed occasionale dell'evento che ha determinato la necessità di svolgere i lavori nel locale di proprietà del lavoratore e di ridurre la presenza presso il domicilio del padre".

 

L'OBBLIGO SOLIDALE DEL COMMITTENTE, PER IL PAGAMENTO DEI CONTRIBUTI PREVIDENZIALI, SUSSISTE ANCHE SE IL CONTRATTO DI APPALTO VIETAVA IL SUBAPPALTO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 27382 DEL 25 OTTOBRE 2019

La Corte di cassazione, sentenza n. 27382 del 25 ottobre 2019, ha statuito che il committente imprenditore è obbligato in maniera solidale a versare i contributi dei lavoratori di un subappaltatore anche se il contratto stipulato con l'appaltatore principale vietava esplicitamente la possibilità di subappaltare l'intervento.

La vicenda, posta al vaglio di legittimità, ha riguardato una società a cui l’INPS, a seguito di verifiche, aveva chiesto il pagamento dei contributi omessi da una società subappaltatrice sulla base del contenuto del comma 2 dell’articolo 29 del D.Lgs. 276/2003, nella versione ante modifica del D.L. n. 5/2012 e della legge 92/2012. Infatti, la società committente aveva commissionato ad una società dei lavori in qualità di appaltatrice che a sua volta provvedeva a dare in subappalto ad una società cooperativa i predetti lavori in violazione del divieto di subappalto contenuto nel contratto d’appalto stipulato.

La società committente provvedeva prontamente ad impugnare il decreto ingiuntivo dell’INPS, risultando vincitrice in primo grado, sentenza che veniva ribaltata dalla Corte di Appello.  In particolare, per i Giudici di appello la responsabilità del committente aveva natura oggettiva nel senso che derivava dal semplice fatto di aver stipulato il contratto d’appalto e che avendo ricevuto la documentazione dei lavoratori avrebbe facilmente potuto e dovuto controllare quali erano i dipendenti dell’appaltatore e quelli del subappaltatore.

Da qui il ricorso per Cassazione da parte della società committente.

Si coglie l’occasione per ricordare che la versione, ante modifica di cui al D.L. n. 5/2012 e della legge 92/2012, prevedeva la responsabilità solidale del committente con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali ulteriori subappaltatori, entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto per il pagamento dei trattamenti retributivi e dei contributi previdenziali dovuti ai dipendenti addetti all’appalto. La preventiva escussione dell’appaltatore e dei subappaltatori è stata introdotta dalla legge 92/2012. La versione attuale della norma pur prevedendo la responsabilità solidale (sia per i trattamenti retributivi, incluse le quote di trattamento di fine rapporto, che per i contributi previdenziali) tra committente, appaltatori e subappaltatori, non riporta più il beneficio della preventiva escussione.

Orbene, i Giudici del Palazzaccio, nel respingere il ricorso della società committente, con la sentenza de qua hanno puntualizzato che “L’obbligazione contributiva, derivante dalla legge e che fa capo all’INPS, è dunque distinta ed autonoma rispetto a quella retributiva [..] e soprattutto se ne deve sottolineare la sua natura indisponibile nonché la sua commisurazione alla retribuzione che al lavoratore spetterebbe sulla base della contrattazione collettiva vigente. […] La peculiarità dell’obbligazione contributiva induce a ritenere non coerente con le sue caratteristiche ed in assenza di qualsiasi plausibile ragione, l’esonero della responsabilità del committente a fronte della violazione del divieto di subappalto da parte del subappaltare, concordato con il committente.” Ed inoltre che “la ratio dell’art. 29 (e quindi della stessa responsabilità solidale) è quella di “incentivare un utilizzo più virtuoso del contratto di appalto, inducendo il committente a selezionare imprenditori affidabili e a controllarne successivamente l’operato per tutta la durata del rapporto contrattuale

In nuce, per gli Ermellini l’obbligazione contributiva è per sua natura indisponibile, nel senso che su di essa non possono intervenire pattuizioni di segno contrario delle parti che stipulano il contratto di appalto. Ne consegue che la previsione di un divieto di subappalto non incide sul diritto dell’istituto di previdenza di richiedere direttamente alla committente il versamento dei contributi non pagati dall’impresa subappaltatrice per i lavoratori impiegati nei servizi appaltati.

 

LA MANCATA ESPRESSA TIPIZZAZIONE NEI CONTRATTI COLLETTIVI DELLA CONDOTTA POSTA A BASE DEL LICENZIAMENTO FRA LE IPOTESI REINTEGRATORIA COMPORTA L’APPLICAZIONE DELLA TUTELA INDENNITARIA.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 28098 DEL 31 OTTOBRE 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 28098 del 31 ottobre 2019, ha statuito che con la Legge 92/2012 è stata introdotta l’ipotesi di illegittimità della sanzione espulsiva per motivi disciplinari, lasciando la sanzione della reintegrazione ad ipotesi di maggior rilievo e prevedendo la tutela risarcitoria alle ipotesi del difetto di proporzionalità.

La Corte d'Appello di Campobasso, in accoglimento del reclamo posto in essere dal lavoratore, riformava la sentenza di primo grado, annullava il licenziamento e condannava la società alla reintegra del posto di lavoro oltre ad una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello di effettiva reintegrazione.

La Corte distrettuale ha ritenuto che, in assenza di una specifica tipizzazione della condotta da parte del R.D. n. 148 del 1931, o del contratto collettivo, il difetto di proporzionalità tra la sanzione espulsiva e la condotta, per aver utilizzato tre giorni di permesso sindacale per fini diversi, era assimilabile a quella dell'assenza arbitraria dal lavoro sino a tre giorni, prevista dal al R.D. n. 148 del 1931, art. 42, e art. 72 c.c.n.l. di riferimento. 

La società ricorreva in Cassazione con sei motivi posti a sostegno della propria tesi.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, hanno in particolare accolto il quarto motivo posto a base del ricorso, ossia l’errata applicazione della tutela reintegratoria di cui al comma 4 del novellato art. 18 della Legge 92/2012, in luogo del comma 5 del medesimo articolo che, ex adverso, prevede l’applicazione della sola tutela indennitaria.

Difatti, la stessa Sentenza dei Giudici di merito ha dato espressamente atto della assenza di specifica tipizzazione della condotta addebitata sia da parte del regio decreto n. 148 del 1931 che del contratto collettivo di riferimento, con la conseguenza che, alla luce del novellato art. 18, comma 5, non può trovare la piena applicazione della tutela reale, ma solo la tutela indennitaria. Pertanto, hanno precisato i Giudici di Piazza Cavour, la valutazione di non proporzionalità si limita agli scollamenti tra la gravità della condotta realizzata e la sanzione prevista dai contratti collettivi in cui la sanzione applicabile è di tipo conservativo. Invece, la sproporzione tra la condotta e la sanzione espulsiva rientra nelle "altre ipotesi" in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, ma la sola tutela indennitaria.

 

IL CONTRIBUENTE HA DIRITTO ALLA RIDUZIONE DELLA TASSA RIFIUTI SE PROVA CHE IL SERVIZIO NON È STATO SVOLTO O È STATO SVOLTO IRREGOLARMENTE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 22767 DEL 12 SETTEMBRE 2019

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 22767 del 12 settembre 2019, ha statuito che l'amministrazione comunale è sempre responsabile per i disservizi nella raccolta e nello smaltimento dei rifiuti, a prescindere dalle cause che li hanno determinati, con la conseguenza che il contribuente ha diritto alla riduzione della tassa rifiuti se prova che il servizio istituito e attivato nella zona di residenza o di dimora dell'immobile non è stato svolto o è stato svolto irregolarmente, ed è illegittimo  ogni regolamento che subordini o limiti il diritto alla riduzione alla prevedibilità delle cause del disservizio da parte del Comune.

Per i Giudici di piazza Cavour, il presupposto della riduzione della tassa non richiede che il grave disservizio “sia imputabile a responsabilità dell'Amministrazione comunale”, in quanto conta il fatto che “l’obiettivo che il servizio di raccolta, istituito ed attivato, non sia svolto nella zona di residenza o di dimora nell'immobile a disposizione o di esercizio dell'attività dell'utente, ovvero che venga “svolto in grave violazione delle prescrizioni del regolamento del servizio di nettezza urbana”. Va, pertanto, totalmente disapplicato il regolamento comunale “che escluda o limiti il diritto alla riduzione Tarsu, subordinandone il riconoscimento ad elementi, quale quello della responsabilità dell'amministrazione comunale ovvero della prevedibilità o prevenibilità delle cause del disservizio”.

In nuce, la S.C. ha ribadito che il diritto alla riduzione spetta per il solo fatto che il servizio di raccolta, debitamente istituito ed attivato, non venga poi concretamente svolto, o venga svolto in grave difformità rispetto alle modalità regolamentari, in modo tale da non rendere fruibile il servizio da parte dell'utente, senza che sia richiesto agli interessati di dimostrare una precisa responsabilità dell'Amministrazione comunale.

 

RICADE SUL DATORE DI LAVORO L’ONERE DI DIMOSTRARE LA MANCATA POSSIBILITA’ DI RICOLLOCAZIONE DEL LAVORATORE LICENZIATO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 24491 DEL 01 OTTOBRE 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 24491 del 01 ottobre 2019, ha statuito, in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo che spetta al datore di lavoro dimostrare sia l’effettiva sussistenza del motivo (oggettivo) addotto, sia l’impossibilità di ricollocare utilmente la dipendente (c.d. “repechage”).

Nel caso in esame, la Corte di Appello di Trieste riformava la sentenza del Tribunale di Gorizia che aveva ritenuto legittimo il licenziamento della dipendente per giustificato motivo oggettivo a seguito di una riduzione dell’attività lavorativa dell’impresa a seguito di diverse disdette di alcuni contratti di consulenza. Di differente avviso la Corte di Appello di Trieste che dichiarava illegittimo il licenziamento intimato con applicazione della tutela obbligatoria prevista dall’art. 8 della legge n. 604/66.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso del datore, condividendo l'operato dei Giudici distrettuali. La Corte territoriale, hanno argomentato gli Ermellini, ha accertato in concreto gli elementi indiziari ritenuti convergenti ad esprimere una mancanza di nesso tra la diminuzione dell’attività e la necessità di licenziare la lavoratrice ricorrente, la quale aveva una professionalità e un inquadramento del tutto fungibili rispetto agli altri tre impiegati, peraltro assunti dopo di lei.

Orbene, a parere degli Ermellini, spetta all’imprenditore provare in giudizio che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella ricoperta dalla lavoratrice per mansioni equivalenti.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Natalia Andreozzi

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Modificato: 18 Novembre 2019