23 Novembre 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

COEFFICIENTE ISTAT MESE DI OTTOBRE 2020

E’stato reso noto l’indice Istat ed il coefficiente per la rivalutazione del T.F.R. relativo al mese di Ottobre 2020. Il coefficiente di rivalutazione T.F.R. Ottobre 2020 è pari a 1,25 e l’indice Istat è 102,00

 

LA DETERMINAZIONE DELL’IMPONIBILE PREVIDENZIALE SEGUE IL CONTRATTO LEADER DEL SETTORE OVVERO LE PATTUIZIONI INDIVIDUALI/AZIENDALI SE PIU’ FAVOREVOLI AL LAVORATORE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 21894 DEL 9 OTTOBRE 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 21894 del 9 ottobre 2020, ha (ri)statuito che l’importo della retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali è quello ricavabile dal contratto individuale ovvero accordi sindacali aziendali qualora questi prevedano una retribuzione maggiore del contratto collettivo nazionale di settore sottoscritto dalle OO.SS. e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

La vicenda trae origine da un accertamento ispettivo dell’Inps ai danni di una cooperativa, all’esito del quale erano stati riqualificati alcuni rapporti di associazione in partecipazione in rapporti di lavoro subordinato; per l’effetto, l’Istituto previdenziale richiedeva il pagamento dei contributi previdenziali sulla base del CCNL trasporto merci e logistica. La società, ex adverso, sosteneva che i contributi andassero calcolati in applicazione del CCNL Terziario, tenuto conto che ad altri dipendenti della stessa si applicava detto contratto.

La prospettazione societaria trovava accoglimento nei due gradi di merito, donde il ricorso – da parte dell’Inps – per la cassazione della sentenza.

Gli Ermellini, facendo leva sulla pressoché uniforme giurisprudenza nomofilattica, hanno accolto il ricorso dell’Istituto e (ri)affermato il noto principio a mente del quale “l'importo della retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali, a norma del D.L. 9 ottobre 1989, n. 338, art. 1 convertito dalla L. 7 dicembre 1989, n. 389 (che fa riferimento al criterio del minimale contributivo, pari alla retribuzione dovuta in un determinato settore in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative su base nazionale) è quello desumibile dai diversi accordi sindacali o dal contratto individuale di lavoro, quando questi ultimi prevedano una retribuzione superiore alla misura minima stabilita dal contratto collettivo nazionale, mentre solo in caso contrario la contribuzione va parametrata a quella stabilita dalla contrattazione nazionale di settore”.

 

L'APPALTO DI OPERE O SERVIZI ESPLETATO CON MERE PRESTAZIONI DI MANODOPERA E' LECITO PURCHE' COSTITUISCA UN SERVIZIO SVOLTO CON ORGANIZZAZIONE E GESTIONE AUTONOMA DELL'APPALTATORE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 24386 DEL 3 NOVEMBRE 2020.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 24386 del 3 novembre 2020, ha confermato, in tema di appalto di servizi, che la fornitura ai lavoratori impiegati, di modelli di standardizzazione dei servizi richiesti dall'impresa utilizzatrice, non costituisce elemento rivelatore della non genuinità dell'appalto.

Nel caso de quo, i lavoratori di una ditta appaltatrice che avevano svolto attività di autista del servizio di cui era committente la società Poste Italiane Spa, adivano il Tribunale di Trieste assumendo che, avendo operato per la suddetta società, erano divenuti autisti della medesima con diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro ed inquadramento, in ragione del CCNL applicato ai dipendenti di Poste Italiane Spa. Nel contraddittorio delle parti e dopo avere espletato attività istruttoria, mercé la verifica dei modelli standardizzati di richiesta (mod. 36) con i quali la committente "organizzava" il servizio al fine di renderlo omogeneo su tutto il territorio, l'adito Giudice del lavoro accoglieva la domanda dei ricorrenti.

Non dello stesso avviso la Corte di Appello di Trieste che, in riforma della impugnata pronuncia respingeva tutti gli originari ricorsi. In particolare, i giudici del merito rimarcavano che le risultanze istruttorie non erano idonee a dimostrare l'esistenza di un appalto di manodopera non genuino, espletato in violazione del divieto di intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro di cui al Decreto Legislativo n° 276 del 2003.

Avverso la sentenza di secondo grado proponevano ricorso per cassazione i lavoratori insoddisfatti.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso ribadendo che, ai sensi del Decreto Legislativo n°276 del 2003, art. 29, l'appalto di opere o servizi espletato con mere prestazioni di manodopera è lecito purché il requisito della "organizzazione dei mezzi necessari da parte dell'appaltatore", costituisca un servizio in sé, svolto con organizzazione e gestione autonoma dell'appaltatore, senza che l'appaltante, al di là del mero coordinamento necessario per la confezione del prodotto, eserciti diretti interventi dispositivi e di controllo sui dipendenti dell'appaltatore e il requisito della "organizzazione dei mezzi necessari da parte dell'appaltatore", previsto dal citato art. 29, può essere individuato, in presenza di particolari esigenze dell'opera o del servizio, anche nell'esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nel contratto (Cfr. Cass. n° 30694 del 2018).

La Corte territoriale, hanno concluso gli Ermellini, facendo corretta applicazione di tale orientamento giurisprudenziale, aveva accertato che il servizio di trasporto era direttamente organizzato dalla società appaltatrice che forniva i furgoni, mezzi indispensabili per svolgere l'attività lavorativa per la quale erano stati assunti i dipendenti e che la stessa ditta appaltatrice provvedeva alla manutenzione e al rifornimento di tali mezzi, curando il loro buon funzionamento, con l'assunzione, pertanto, di un rischio economico effettivo e non meramente figurativo. Infine, i cd. "modelli 36" non provavano l'ingerenza della società Poste Italiane Spa nella gestione del servizio in quanto gli stessi si limitavano a standardizzare il servizio che, essendo svolto su tutto il territorio nazionale, doveva rispondere a parametri di omogeneità e qualità.


L’IMPOSTA TARI PUÒ ESSERE RIDOTTA FINO AL 40 PER CENTO SE IL COMUNE NON RACCOGLIE I RIFIUTI.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 19767 DEL 22 SETTEMBRE 2020

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n° 19767 del 22 settembre 2020, ha statuito che la Tari può essere ridotta fino al 40% se il Comune non raccoglie i rifiuti tenuto conto anche da quanta distanza c'è fra il contribuente e il primo punto di raccolta dell'ente locale.

Con l’ordinanza de qua, i Giudici di Piazza Cavour, ribaltando completamente il verdetto della CTR di Napoli, hanno accolto il ricorso di un'impresa che aveva chiesto al Comune di Nola una sostanziale riduzione dell'imposta dato il grave disservizio della mancata raccolta dei rifiuti.

Nello specifico, gli Ermellini hanno evidenziato come la Tari sia un tributo che il singolo soggetto è tenuto a versare in relazione all'espletamento da parte dell'ente pubblico di un servizio nei confronti della collettività e che, da tale servizio riceve un beneficio, non già in relazione a prestazioni fornite ai singoli utenti, per cui sarebbe contrario al sistema di determinazione del tributo pretendere di condizionare il pagamento al rilievo concreto delle condizioni di fruibilità che del resto, per loro natura, oltre ad essere di difficile identificazione mal si prestano a una valutazione economica idonea a garantire una esatta ripartizione fra gli utenti del costo di gestione.

Pertanto, per i Giudici del Palazzaccio, pur se i criteri di ripartizione del servizio di smaltimento dei rifiuti non sono collegati al concreto utilizzo, bensì ad una fruizione potenziale desunta da indici meramente presuntivi, quali l'occupazione e detenzione di locali e aree, che tengono conto della quantità e qualità in essi possono essere prodotti ordinariamente, il legislatore ha ritenuto di temperare la rigidità di tale criterio impositivo introducendo ipotesi di esclusione e di riduzione, riduzioni che a loro volta si distinguono in obbligatorie, i cui presupposti sono già fissati dalla legge, e facoltative, spettanti solo se previste dal regolamento comunale e secondo le modalità ivi determinate.

In nuce, per la S.C., il mancato svolgimento del servizio di raccolta, nell'irrilevanza delle ragioni da cui è determinato, dà diritto a una riduzione quanto meno sino al 40%.


L’INTERPOSIZIONE ILLECITA DI MANODOPERA E’ CONFIGURABILE ANCHE IN CASO DI SUBAPPALTO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 25220 DEL 10 NOVEMBRE 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n. 25220 del 10 novembre 2020, ha statuito che, anche nell’ipotesi del subappalto, si possa configurare interposizione illecita di manodopera.

Nel caso de quo, un lavoratore adiva il Tribunale per richiedere l’accertamento dell’illecita intermediazione di manodopera e la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato facente capo alla società appaltante.

Il ricorrente, infatti, aveva formalmente lavorato per una società cooperativa subappaltatrice dell’esecuzione del servizio, ma aveva svolto la propria prestazione lavorativa presso lo stabilimento della committente.

Sebbene i Giudici di prime cure avessero accolto il ricorso del lavoratore, la sentenza veniva ribaltata in secondo grado, giacché i Giudici della Corte d’Appello accoglievano il ricorso proposto dall’appaltante, pertanto, il lavoratore ricorreva in Cassazione.

Alla base del ricorso del lavoratore veniva posta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1 comma 3 della Legge n. 1369/1960. La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso presentato, ha evidenziato che l’art. 1 della suddetta legge non pone alcuna distinzione tra appalto e subappalto di manodopera, disponendo il divieto di interposizione ed intermediazione sotto ogni forma effettuato, quando le prestazioni lavorative vengano svolte in favore di un soggetto diverso da colui che ha assunto il lavoratore.

Nel caso in oggetto, seppure lo svolgimento dell’attività lavorativa aveva avuto come destinatario non l’appaltatrice ma la committente, beneficiaria effettiva della prestazione, le modalità di svolgimento della stessa avevano comunque determinato una dissociazione tra datore di lavoro formale, titolare del rapporto di lavoro, ed il soggetto nel cui interesse era svolta la prestazione lavorativa. Questa circostanza rappresentava, a parere dei Giudici, l’unico indice rilevante dell’interposizione illecita di manodopera. Inoltre, nella fattispecie l’utilizzo da parte della società appaltatrice di capitali, macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante ha determinato una presunzione legale assoluta di interposizione illecita di manodopera, in quanto specificamente indicato come indice di mero appalto di prestazioni lavorative dall’art. 1 comma 3 della Legge n. 1369/1960, ad eccezione dei casi in cui sia dimostrabile un apporto fornito da parte dell’appaltatore, diverso dal mero far fronte alle spese derivanti dal costo del lavoro.

Per le motivazioni esposte, la Suprema Corte ha cassato la sentenza, rinviando alla Corte d’Appello in diversa composizione.


LE MANSIONI ASSEGNATE AL DIPENDENTE DISABILE NON DEVONO ESSERE NECESSARIAMENTE SEDENTARIE

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 25396 DELL’11 NOVEMBRE 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 25396 dell’11 novembre 2020, ha statuito che nessuna sanzione può essere applicata per l’azienda che non affidi mansioni sedentarie al dipendente disabile, in quanto ciò che rileva è la congruità dei compiti assegnati al lavoratore con la sua disabilità e lo svolgimento degli stessi in assoluta sicurezza.

Nel caso preso in esame, infatti, un lavoratore, affetto da disabilità, ricorreva al Tribunale al fine di ottenere un adeguato ristoro economico per le presunte condotte illegittime tenute dall’azienda. In particolare, chiedeva il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale conseguente all’adibizione a mansioni incompatibili con la propria condizione di accertata disabilità e chiedeva allo stesso tempo l’emanazione di un provvedimento che lo ricollocasse in una “posizione lavorativa idonea e dignitosa”.

Il Tribunale rigettava il ricorso ritenendo che la società datrice non avesse compiuto alcuna azione illegittima, avendo – anzi – dotato il dipendente di opportuni dispositivi di protezione individuale, segnatamente dei guanti ad alto scorrimento. Secondo i Giudici, infatti, la cui decisione era corroborata anche da una consulenza medico-legale, era ravvisabile la piena congruità delle mansioni affidate al lavoratore con il suo grado di invalidità e, pertanto, non si configurava alcuna condotta illegittima dell’azienda ai danni del dipendente. 

Il dipendente, a seguito della soccombenza in Appello, ricorreva in Cassazione denunciando sia la violazione e falsa applicazione della L. 482/1968, che imponeva all’impresa l’adibizione – sin dall’assunzione – a mansioni non operative con onere a carico del datore di provarne l’impossibilità, sia l’aver posto i Giudici Territoriali a suo carico l’onere di indicare eventuali posizioni di lavoro disponibili, compatibili con la sua invalidità. Allo stesso tempo, censurava anche il ragionamento con cui i Giudici di merito avevano rigettato la domanda di risarcimento del danno, sostenendo il difetto di condotte illegittime sulla base del rilievo per cui “tutte le mansioni affidate al lavoratore, siccome ontologicamente diverse e contrastanti con le mansioni sedentarie all’invalido riservate per legge, dovrebbero considerarsi illegittime”.

I Giudici della Suprema Corte hanno rigettato il ricorso atteso che l’assunto di parte ricorrente contrastava con la previsione dallo stesso invocata; infatti, l’art. 20 l. 482/1968, ribadito dall’art. 10, l. n. 68/1999, prevede che è in facoltà al datore di adibire il prestatore invalido a mansioni diverse da quelle per le quali è assunto “purché compatibili con le condizioni di salute dell’invalido” stesso.

Di conseguenza, una volta appurata, mediante consulenza medico-legale la compatibilità tra le mansioni offerte e lo stato di invalidità, l’operato dell’azienda è stato ritenuto legittimo, donde nessun addebito veniva imputato al datore di lavoro con conseguente rigetto della richiesta attrice di vedersi riconosciuta l’assegnazione a mansioni diverse.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giusi Acampora, Pietro Di Nono, Fabio Triunfo e Michela Sequino.

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Modificato: 23 Novembre 2020