4 Dicembre 2017

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE CHE PRESTA ATTIVITA' DURANTE L'ASSENZA PER MALATTIA SE TALE COMPORTAMENTO NON PREGIUDICA LA NORMALE GUARIGIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 27333 DEL 17 NOVEMBRE 2017.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 27333 del 17 novembre 2017, ha evidenziato che lo svolgimento di attività lavorativa durante il periodo di assenza per malattia non può costituire valida motivazione per il recesso unilaterale datoriale se lo stesso non pregiudica la normale guarigione del prestatore.

Nel caso in disamina, un dipendente, durante un periodo di assenza dal suo lavoro abituale, a causa di una malattia, veniva sorpreso a svolgere la medesima attività lavorativa, alla quale era normalmente adibito, in un locale attiguo alla propria abitazione.

Il datore di lavoro, all’esito del procedimento disciplinare, irrogava il licenziamento. Il dipendente adiva la Magistratura trovando pieno soddisfo alle proprie rivendicazioni a seguito del ricorso alla Corte territoriale, dopo esser risultato soccombente in I° grado.

Il datore di lavoro ricorreva in Cassazione.

Orbene, i Giudici dell'Organo di nomofilachia, nel confermare integralmente il deliberato della Corte di Appello, hanno evidenziato che laddove il comportamento del dipendente, assente per malattia, non pregiudichi il normale decorso medico ovvero non evidenzi una simulazione della paventata alterazione psico-fisico, non sussiste giusta motivazione per l'atto di recesso datoriale.  

Pertanto, atteso che nel caso in disamina il dipendente aveva svolto alcune attività lavorative in un locale attiguo alla propria abitazione senza pregiudicare in alcun modo la normale guarigione, i Giudici di Piazza Cavour hanno rigettato il ricorso confermando l'illegittimità del recesso datoriale.

IL TEMPO DI VESTIZIONE/SVESTIZIONE DEVE ESSERE RETRIBUITO SE LA SUA GESTIONE NON E' RIMESSA ALLA LIBERTA' DEL LAVORATORE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 27799 DEL 22 NOVEMBRE 2017.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 27799 del 22 novembre 2017, ha (ri)statuito che il tempo occorrente alla vestizione e svestizione del lavoratore (c.d. tempo tuta) deve essere retribuito quale normale orario di lavoro nel caso in cui venga eterodiretto non lasciando, al dipendente, la facoltà di scegliere modalità, tempi e/o luoghi di effettuazione.

Nel caso de quo, un dipendente della ASL di Pescara adiva la Magistratura rivendicando il pagamento della normale retribuzione per il lasso temporale occorrente ad indossare, e successivamente rimuovere, la divisa aziendale composta, in modo specifico, da camice e mascherina. L'azienda datrice di lavoro resisteva sostenendo che l'attività rivendicata dal prestatore rientrasse nel normale obbligo di diligenza “preparatoria” all'espletamento dell'attività lavorativa.

Soccombente in entrambi i gradi di merito, l'ASL ricorreva in Cassazione.

Orbene gli Ermellini, nel confermare integralmente il deliberato della Corte territoriale, hanno nuovamente evidenziato che il tempo impiegato dal subordinato per la vestizione/svestizione, meglio noto come “tempo tuta”, in assenza di esplicita disciplina ad opera della contrattazione collettiva, deve essere retribuito come normale orario di lavoro nel caso in cui lo stesso sia oggetto dell'eterodirezione datoriale ed il lavoratore venga, conseguentemente, limitato nella scelta di tempi, modalità e luoghi di effettuazione.  

Pertanto, atteso che nel caso in disamina il dipendente era “costretto” ad effettuare le predette operazioni all'interno del Presidio ospedaliero per evidenti motivi di igiene e sanità pubblica, i Giudici di Piazza Cavour hanno rigettato il ricorso confermando la retribuibilità del tempo di vestizione/svestizione.

PER LA REINTEGRA A SEGUITO DI LICENZIAMENTO IL SOCIO DI COOPERATIVA HA L'ONERE DI IMPUGNARE LA DELIBERA DI ESCLUSIONE DAL RAPPORTO ASSOCIATIVO.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONI UNITE – SENTENZA N. 27436 DEL 20 NOVEMBRE 2017.

La Corte di Cassazione – Sezioni Unite -, sentenza n° 27436 del 20 novembre 2017, ha statuito che la mancata impugnazione della delibera di esclusione da parte del socio lavoratore preclude la possibilità di impugnare l'eventuale licenziamento derivante dal sottostante rapporto di lavoro dipendente. Nella vicenda in esame, un socio di una società cooperativa era stato, nel contempo, escluso dalla cooperativa e da essa licenziato per giusta causa, in ragione della contestata aggressione ad un superiore gerarchico; il lavoratore non aveva impugnato la delibera di esclusione, limitandosi ad impugnare il licenziamento.                        

In primo grado, il Tribunale di Torino aveva respinto l'eccezione di decadenza per l'omessa impugnazione della delibera di esclusione ed aveva ritenuto illegittimo il licenziamento, accordando al lavoratore la tutela obbligatoria ex art. 8, legge n° 604/1966, applicabile al rapporto. La Corte d'Appello di Torino, adita dalla cooperativa, aveva sostenuto che al cospetto dei due contestuali atti estintivi, di esclusione e licenziamento, potesse essere impugnato anche solo il secondo; nel merito, aveva escluso la sussistenza della giusta causa di recesso rimodulando l'importo del risarcimento.                                                                                                                                     La cooperativa ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza.                                                                La Suprema Corte, ravvisata la situazione di contrasti esistenti in materia, anche nella giurisprudenza di legittimità, ed evidenziata l'importanza della questione, ha sottoposto la questione al Primo Presidente che ha assegnato la controversia alle Sezioni Unite.                                                                                                                                                    Orbene, le Sezioni Unite Civili della Suprema Corte, hanno risolto il contrasto interpretativo stabilendo la necessità di impugnare la delibera di esclusione per poter impugnare anche il licenziamento. Il socio, recita la sentenza, "può non essere lavoratore", mentre "qualora perda la qualità di socio non può più essere lavoratore".                                                                                                                                                 All'uopo, gli Ermellini hanno ricordato che l'equilibrio del peso dei due rapporti in seno alla cooperativa è stato riscritto dalla legge n°30/2003 che ha aggiunto il comma 2, all'art. 5 della legge 142/2001 che recita: "Il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l'esclusione del socio deliberati nel rispetto delle previsioni statutarie e in conformità con gli artt. 2526 e 2527 c.c. (oggi con l'art. 2533 c.c.)". In seno a questo apparato, hanno continuato gli Ermellini, l'effetto estintivo del rapporto di lavoro derivante dall'esclusione dalla cooperativa, impedisce, in mancanza di impugnazione della relativa delibera, di conseguire il rimedio della restituzione della qualità di lavoratore. L'effetto estintivo, che consegue alla mancata impugnazione, tuttavia, riguarda la sola ricostituzione del rapporto di lavoro, ma non esclude la possibile illegittimità del licenziamento alla quale si può porre rimedio con la tutela risarcitoria.


IN CASO DI OPERAZIONI INSESISTENTI SPETTA ALL’AMMINSITRAZIONE FINANZIARIA FORNIRE PROVA DELL’INESISTENZA SOGGETTIVA.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 25538 DEL 27 OTTOBRE 2017

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 25538 del 27 ottobre 2017, ha statuito che l’obbligo di provare l’inesistenza soggettiva di un’operazione anche presuntivamente e la conoscenza o conoscibilità da parte del cessionario della frode, grava sull’ufficio dell’Amministrazione finanziaria.

Nel caso in specie, l’Agenzia delle Entrate aveva provveduto ad emettere a carico di un contribuente avviso di accertamento ritenendo alcune operazioni soggettivamente inesistenti, in virtù dell’assenza di strutture del venditore, ovvero dei gravi inadempimenti fiscali (omessa dichiarazione, omesso versamento, ecc.), provvedendo al recupero dell’IVA ritenuta indebitamente detratta.

Sia la CTP, sia la CTR, ritenevano che l’acquirente avesse dato prova della sua estraneità agli illeciti commessi dai venditori e quindi annullava l’accertamento dell’ufficio fiscale.

In particolare, i Giudici di merito ritenevano che l’ufficio fiscale non avesse dato prova che il contribuente sapeva o avrebbe potuto sapere, utilizzando la normale diligenza, che l’operazione commerciale alla quale aveva partecipato era in realtà una frode fiscale.

L’Agenzia delle Entrate ricorreva così per Cassazione evidenziando al contrario che il Giudice di Appello non poteva ritenere estraneo alla frode l’acquirente.

Si ricorda che, nel caso di operazioni oggettivamente inesistenti, la fattura è l’espressione cartolare di una operazione mai venuta in essere, mentre nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, invece, l’operazione è effettiva ed esistente ma la fattura è stata emessa da un soggetto diverso da quello che ha effettuato la cessione o la prestazione in essa rappresentata (e della quale il cessionario o il committente è stato realmente destinatario).

Orbene, con la sentenza de qua, i Giudici di Piazza Cavour hanno respinto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate confermando il principio, ormai consolidato in giurisprudenza di legittimitàsecondo cui se viene contestata l’inesistenza soggettiva dell’operazione grava sull’Amministrazione Finanziaria l’onere di provare anche in via presuntiva l’interposizione fittizia del cedente ovvero la frode fiscale realizzata a monte dell’operazione, eventualmente da altri soggetti, nonché la conoscenza o conoscibilità da parte del cessionario della frode commessa. Spetta invece al contribuente che intende esercitare la detrazione dimostrare l’incolpevole affidamento sulla regolarità fiscale ingenerato dalla condotta del cedente.

In altre parole nel caso di fatture soggettivamente inesistenti, il contribuente può detrarre l'IVA se prova la propria buona fede, cioè se, in base ai normali canoni dell'ordinaria diligenza, non poteva sapere che il venditore non era quello risultante dalla fattura, mentre l’Ufficio, per poter recuperare l’IVA indebitamente detratta, deve dimostrare che il contribuente “sapeva o avrebbe dovuto sapere” che con il proprio acquisto partecipava ad una frode, fornendo la prova che l’acquirente era direttamente coinvolto nel fatto illecito ovvero fornendo prova della consapevolezza circa le violazioni commesse dal cedente.

IL LAVORATORE NON E’ OBBLIGATO A SVOLGERE LA PRESTAZIONE LAVORATIVA DURANTE LE FESTIVITA’ NAZIONALI

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 27948 DEL 23 NOVEMBRE 2017.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 27948 del 23 novembre 2017, ha statuito che la Legge riconosce al lavoratore il diritto di astenersi dalle festività di cui alla Legge 90/1954.

Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Brescia, in linea con il Tribunale di Bergamo, respingeva il gravame posto dall’azienda datrice in merito alla sentenza di primo grado. Le ragioni riguardavano le richieste di alcuni lavoratori del settore metalmeccanico a percepire le retribuzioni giornaliere per le giornate dell’8 dicembre e 6 gennaio. Diritto sussistente a prescindere dal rifiuto a prestare l’attività lavorativa. L’azienda proponeva ricorso in Cassazione con soli due motivi.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, avallando il ragionamento logico giuridico dei Giudici di merito, hanno ricordato che la possibilità di lavorare durante le festività non è un obbligo. Principio derogabile con accordo individuale o con accordi sindacali stipulati da OO.SS. a cui il lavoratore sia iscritto ovvero abbia conferito mandato. Di conseguenza, la spettanza del trattamento economico durante la festività non può essere messo in discussione al punto da ritenere assente ingiustificato il lavoratore e quindi senza retribuirlo. Provvedimenti adottati in tal senso dal datore di lavoro sono nulli e gli atti nulli sono improduttivi di effetti.

In conclusione, in occasione dell’8 dicembre, del 25 aprile, il 1° maggio ed il 6 gennaio, ai sensi della Legge n. 260/1949 come modificata dalla Legge n. 90/1954 viene riconosciuto al lavoratore un diritto soggettivo ad astenersi dal lavoro in occasione delle suddette festività, senza alcuna perdita di retribuzione.

 Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 4 Dicembre 2017