26 Novembre 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

LA QUALIFICA DA ATTRIBUIRE AL DIPENDENTE DEVE ESSERE VALUTATA FACENDO RIFERIMENTO ALLE ATTIVITA’ LAVORATIVE REALMENTE ESPLETATE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 28634 DELL’8 NOVEMBRE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 28634 dell’8 novembre 2018, ha affermato che, al fine di assegnare correttamente la qualifica lavorativa al dipendente è necessario verificare attentamente e scrupolosamente le reali attività dallo stesso espletate avendo valore meramente residuale la definizione utilizzata fra le parti.

Nel caso in disamina una lavoratrice veniva licenziata per superamento del periodo di comporto. La prestatrice adiva la Magistratura sostenendo che la patologia patita era ascrivibile al demansionamento subito in quanto le erano state sottratte le attività propria di capo reparto, qualifica attribuitale (a suo dire) all’atto dell’assunzione.

Soccombente in entrambi i gradi di merito, la dipendente ricorreva in Cassazione.

Orbene, gli Ermellini, nel dichiarare inammissibile il ricorso in quanto basato su un riesame di fatti già congruamente e logicamente esaminati dai Giudici di merito, hanno sottolineato che al fine di valutare in modo opportuno la mansione e la qualifica da assegnare ad un lavoratore, anche al fine di riconoscere un eventuale demansionamento, non bisogna rifarsi esclusivamente a quanto formalmente attribuito ma deve essere effettuato un’analisi delle mansioni di fatto realmente espletate raffrontandole al livello professionale raggiunto lavorativamente verificando il corretto utilizzo, da parte datoriale, del patrimonio professionale acquisito dalla dipendente.

Pertanto, atteso che nel caso de quo la subordinata era stata assunta come allieva caporeparto e al termine del periodo formativo non aveva superato la valutazione per l’assegnazione della relativa qualifica, e le mansioni dalla stessa effettuate, come riscontrato attraverso le prove testimoniali, non erano assimilabili a quella di caporeparto, i Giudici di Piazza Cavour, nel dichiarare il ricorso inammissibile in quanto fondato sulla richiesta di riesame di fatti già valutati dai Giudici di prime cure, hanno evidenziato la bontà del decisum di merito.

IL RECESSO PER INIDONEITA' FISICA E’ LEGITTIMO SOLO SE E' PROVATA L'IMPOSSIBILITA' DI ADIBIRE IL LAVORATORE A MANSIONI COMPATIBILI CON LE RIDOTTE CAPACITA' LAVORATIVE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 27201 DEL 26 OTTOBRE 2018.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 27201 del 26 ottobre 2018, ha (ri)confermato che il recesso per inidoneità fisica alla mansione, quale giustificato motivo, non si ravvisa allorquando le ridotte capacità lavorative non consentono, esclusivamente, l'ineseguibilità dell'attività usualmente svolta.

Nel caso de quo, la Corte di Appello di Messina aveva confermato il giudizio di primo grado che aveva accolto la domanda proposta da una lavoratrice tesa ad ottenere la declaratoria di illegittimità del provvedimento aziendale con il quale era stato disposto il recesso per inidoneità al servizio di impiegata amministrativa addetta a mansioni di video terminalista.

La Corte poneva a fondamento della decisione l'assenza, accertata da numerosi medici legali, di controindicazioni all'uso di terminali. Inoltre, i Giudici di merito, avevano constatato la mancata allegazione di prove circa l'impossibilità di adibizione della lavoratrice a mansioni equivalenti e compatibili con le ridotte capacità lavorative.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la società datrice eccependo che la consulenza medico-legale, intervenuta nel corso del giudizio, non aveva considerato le palesi risultanze formate dal medico aziendale e contenute nella cartella sanitaria della lavoratrice che, per le norme in tema di tenuta e custodia della stessa, non erano state prodotte nei vari gradi del giudizio.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso avallando le motivazioni della corte di merito ed ha osservato che il recesso per inidoneità fisica, da adottarsi con estrema cautela per il pregiudizio che arreca al lavoratore, può dirsi legittimo solo quando sia provata l'impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti e compatibili con le ridotte capacità, non potendo, l'impossibilità della prestazione, quale giustificato motivo, essere ravvisabile nella sola ineseguibilità della prestazione usualmente svolta dal prestatore, ove si ravvisi la possibilità di svolgimento di altra attività riconducibile, equivalente o anche inferiore rispetto alle originarie mansioni, purché utilizzabili dall'impresa.

Da ultimo, hanno concluso gli Ermellini, non assume alcuna decisività la circostanza attinente alla mancata produzione della cartella sanitaria del medico aziendale, essendo la medesima inidonea a modificare il giudizio espresso dalle concordanti risultanze delle plurime c.t.u..

NON È SOGGETTO ALL’IRAP IL PROFESSIONISTA CHE SOSTIENE SPESE RELATIVAMENTE AD UN SUBAFFITTO DEI LOCALI DESTINATI A STUDIO

CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 28174 DEL 5 NOVEMBRE 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 28174 del 5 novembre 2018 ha statuito che non è soggetto IRAP il professionista che nell’esercizio della propria attività sostiene spese per il subaffitto dei locali destinati a studio.

Nel caso in specie un professionista esercente attività di medico di medicina generale, aveva provveduto a presentare all’Agenzia delle Entrate istanza per il rimborso dell’IRAP negli anni dal 2008 al 2012, vedendosi opporre però il silenzio rigetto.

Il professionista ricorreva prontamente alla giustizia tributaria, ma sia la C.T.P. che la C.T.R. riconoscevano come legittimo il diniego al rimborso per la presenza tra i costi sostenuti dal professionista di costi relativi ad un subaffitto per i locali dello studio, il che faceva sussistere i presupposti della sussistenza del requisito dell’autonoma organizzazione.

Da qui il ricorso per Cassazione da parte del professionista che denunciava difetto di motivazione e la violazione e falsa applicazione della legge, con riferimento all’articolo 2 del D.Lgs. n. 446 del 1997, per avere la C.T.R. affermato la sussistenza del presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione nonostante la prova dell’assenza, nello studio professionale, di lavoratori dipendenti e, soprattutto, del fatto che le spese ritenute per compensi a terzi, in realtà, riguardavano l’onere relativo al subaffitto di uno studio rispondente agli “standard” della convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale.

Orbene, i Giudici di Piazza Cavour, con la sentenza de qua, nell’accogliere in toto il ricorso del professionista, hanno evidenziato che “la C.T.R. ha erroneamente valutato la documentazione fornita inerente alle sole ricevute per canoni di subaffitto dello studio, laddove il ricorrente ha dimostrato che proprio l'importo costante dei costi esibiti negli anni in questione comprovi che non di costi per collaborazioni si trattava ma unicamente di spese per prestazione consistite nel subaffitto dei locali destinati a studio, che risultano essere estranee al presupposto impositivo dell’IRAP, cioè la sussistenza in capo al professionista di un’autonoma organizzazione”.

Per la motivazione suddetta gli Ermellini hanno ritenuto doveroso il rinvio della causa alla C.T.R., la quale, in diversa composizione, dovrà accertare se ricorrano o meno altre spese, oltre a quelle per i canoni relativi al subaffitto dello studio, estranee al presupposto impositivo dell’IRAP.

LEGITTIMA L’ISPEZIONE FISCALE ANCHE SE LA GUARDIA DI FINANZA NON HA RAPPRESENTATO AL CONTRIBUENTE IL MOTIVO DELL’ACCESSO.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 28692 DEL 9 NOVEMBRE 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n° 28692 del 9 novembre 2018, ha statuito che è valida l'ispezione fiscale anche se la Guardia di Finanza non ha rappresentato al contribuente il motivo dell'accesso, atteso che gli agenti possono motivare genericamente con gli indirizzi di programma annuali ovvero con il settore economico di particolare interesse.

I Giudici di Piazza Cavour, con l’ordinanza de qua, confermando in toto quanto deciso dalla CTR, hanno respinto il ricorso di una società presso la quale era stata fatta un'ispezione dalla Guardia di Finanza senza palesare la ricerca di fatture false avviata in seguito a una segnalazione dell'ufficio delle Entrate.

Le doglianze della ricorrente vertevano sulla violazione dell'articolo 12 dello Statuto del Contribuente che impone agli agenti di esplicitare il motivo della visita, onere al quale non è collegata, però, alcuna sanzione, né tantomeno, vi può essere la nullità dell'avviso di accertamento scaturito proprio dalla verifica.

Nello specifico, gli Ermellini hanno rilevato che, “nel caso in cui gli ufficiali verificatori abbiano omesso di rappresentare al contribuente, in sede di verifica, le specifiche ragioni per le quali la stessa sia stata iniziata, motivando l'accesso con generici riferimenti agli indirizzi di programma annuali ovvero al settore economico di particolare interesse, non si configura la nullità dell'accertamento in ragione della semplice violazione dell'art. 12, comma 2, della Legge n. 212 del 2000, atteso che, non essendo tale sanzione espressamente prevista dalla legge, è onere del contribuente dedurre quale sia il concreto pregiudizio alla propria difesa che gli sia derivato dalla denunciata violazione.

In nuce, per la S.C., la segnalazione di uso di fatture false proveniente dall'Amministrazione Finanziaria è già esaustiva per la validità dell’accertamento fiscale ritenendo che il quadro indiziario a carico dell'impresa fosse sufficiente per l'accesso senza alcun'altra precisazione, in quella sede, al legale rappresentante della società contribuente.

IL TRASFERIMENTO DEL RAMO D’AZIENDA E’ NULLO QUANDO  MANCA IL REQUISITO DELL’AUTONOMIA

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 28593 DELL’8 NOVEMBRE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 28593 dell’8 novembre 2018, ha statuito che in caso di trasferimento di ramo d’azienda è necessario che vi sia il preesistente requisito di autonomia del ramo ex art. 2112 del c.c..

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Napoli, dichiarava illegittimo un trasferimento del ramo di azienda per difetto del requisito di preesistenza previsto dall’art. 2112 del c.c. 

Il requisito richiesto, in caso di cessione, è che la “parte” ceduta sia un’articolazione funzionalmente autonoma in una attività economica organizzata. Dunque, le cessioni avvenute (ad una seconda e poi ad una terza società) erano a parere dei Giudici dell’appello piuttosto esternalizzazioni  tese a dividere le varie attività aziendale, senza che avessero una loro effettiva consistenza aziendale.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, in linea con il ragionamento logico giuridico dei Giudici di merito, hanno ribadito l’orientamento ormai consolidato in base al quale l’art. 2112 c.c. presuppone, quale elemento costitutivo ed essenziale di un trasferimento, che l’autonomia funzionale del ramo ceduto sia esistente al momento del trasferimento, capace cioè di una propria autonomia organizzativa e scopo produttivo.  L’assenza di tale requisito al momento del trasferimento rende l’atto nullo. 

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

Condividi:

Modificato: 26 Novembre 2018