25 Novembre 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

L'INVIO MASSIVO DI MAIL CONTENENTI MESSAGGI PUBBLICITARI AD UNA VASTA PLATEA DI UTENTI, SENZA IL PREVENTIVO CONSENSO, ASSUME RILIEVO PENALE LADDOVE SI VERIFICHI UN EFFETTIVO NOCUMENTO PER CIASCUN DESTINATARIO.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 41604 DEL 10 OTTOBRE 2019.

La Corte di Cassazione – III Sezione Penale -, sentenza n° 41604 del 10 ottobre 2019, ha statuito che affinché la condotta di spamming possa assumere rilievo penale occorre che si verifichi, per il destinatario, un effettivo nocumento.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Torino, confermava la sentenza con cui il Tribunale di Aosta aveva condannato un avvocato alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi 6 di reclusione, in quanto ritenuto colpevole del reato di cui agli artt. 167 (id: trattamento illecito di dati) e 130 (id: comunicazioni indesiderate) del D.Lgs. n°196/2003. Si precisa che il reato contestato, pur risalendo al settembre del 2013, è rimasto immutato nella formulazione attuale del D.Lgs. n°196/2013, come rinovellato ad opera del D.Lgs. n°101/2018 di adeguamento al Regolamento Ue n°679/2016.

In particolare, il trattamento illecito di dati personali era consistito nell'invio di numerose mail dirette agli iscritti di un’ associazione con le quali l'imputato, nella sua qualità di avvocato dello stesso ente, pubblicizzava per fini personali propri corsi di aggiornamento, in tal modo agendo al fine di procurarsi un profitto, consistito nell'ottenere la partecipazione a corsi e convegni da lui patrocinati o organizzati nel settore di appartenenza della stessa associazione; il tutto, a giudizio della corte di merito, creando un nocumento ai destinatari, consistente nella necessità di consultare e vagliare le numerose mail, senza il preventivo e necessario consenso.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l'avvocato duolendosi in ordine alla ritenuta sussistenza del nocumento in capo ai destinatari che, invero, erano quantificabili in n°93 iscritti, con la conseguenza che il fatto poteva essere qualificato di particolare tenuità.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso escludendo, a differenza di quanto sostenuto dai Giudici di merito, che il comportamento del ricorrente potesse essere inquadrato nella fattispecie di cui al citato art. 167 del D.Lgs. n°196/2003 che recita: "salvo che il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli artt. 18,19,23,123,126 e 130… è punito, se dal fatto deriva nocumento…" . Come si evince dal tenore della norma, hanno argomentato gli Ermellini, la determinazione del nocumento si configura come un elemento costitutivo della fattispecie penale.

La nozione di nocumento, hanno continuato gli Ermellini, coerentemente con l'etimologia del termine (derivante dal verbo nuocere, ovvero arrecare un danno anche morale), evoca l'esistenza di una concreta lesione della sfera personale o patrimoniale; ex adverso, la fattispecie occorsa può essere direttamente riconducibile a un'operazione di illecito trattamento di dati protetti.

Se, infatti, deve convenirsi circa la illegittimità del trattamento ex art. 130 (id: comunicazioni indesiderate), che subordina al consenso del destinatario la divulgazione di materiale pubblicitario anche mediante posta elettronica (id: spamming), occorre osservare, hanno concluso gli Ermellini, che i vari destinatari delle mail inviate dall'avvocato, non avevano ricevuto alcun pregiudizio giuridicamente apprezzabile, in relazione anche al numero limitato di messaggi, dovendosi pertanto escludere una significativa invasione del proprio spazio informatico (id: infosfera) e la conseguente esistenza di un effettivo nocumento, tale da attribuire rilevanza penale al fatto.

 

È INDEDUCIBILE DALL’IRPEF L’ASSEGNO DI MANTENIMENTO CORRISPOSTO AL CONIUGE IN UN’UNICA SOLUZIONE

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 29178 DEL 12 NOVEMBRE 2019

La Corte di Cassazione – Sezione tributaria- , sentenza n° 29178 del 12 novembre 2019, ha statuito che gli assegni all’ex coniuge corrisposti in unica soluzione non sono deducibili ai fini dell’IRPEF, poiché non possono essere assimilati a quelli periodici per i quali è invece espressamente prevista la deducibilità.
L’Agenzia delle Entrate provvedeva ad accertare a carico di un contribuente, ai fini IRPEF, un maggior reddito imponibile, derivante dal recupero a tassazione dell’onere relativo al versamento, una tantum, effettuato all’ex moglie per il dovuto a seguito atto di transazione stipulato tra le parti nell’ambito della causa di separazione giudiziale.
L’Agenzia delle Entrate disconosceva la deduzione dal reddito ai sensi ex art. 10, comma 1, lett. c), TUIR, sia per difetto del carattere della periodicità del versamento, sia per la mancanza di un provvedimento dell’autorità giudiziaria.

Il contribuente provvedeva prontamente ad impugnare l’avviso di accertamento dinanzi alla giustizia tributaria risultando vincitore in entrambi i gradi di giudizio di merito. In particolare la C.t.r. dichiarava illegittima la pretesa tributaria riconoscendo un’interpretazione estensiva della norma ex art. 10 TUIR sopra richiamata, ritenendo l’assegno pagato una tantum al coniuge equiparato agli assegni periodici, così come regolamentato dall’articolo suddetto.

Da qui, il ricorso per Cassazione dell’Agenzia delle Entrate che tra i propri motivi di gravame denunciava violazione del dettato normativo di cui alla lettera c) dell’art. 10 del D.P.R. 917/86 che prevedeva la sola deducibilità “degli assegni periodici corrisposti al coniuge,  ad esclusione di quelli destinati al mantenimento dei figli, in conseguenza di separazione legale ed effettiva, di scioglimento o annullamento del matrimonio o di cessazione dei suoi effetti civili, nella misura in cui risultano da provvedimenti dell’autorità giudiziaria”.

Orbene, nel conseguente giudizio di legittimità, è stata accolta la tesi erariale secondo cui la deducibilità degli assegni in favore del coniuge deve ritenersi riferita unicamente a quelli erogati periodicamente.
Infatti, ii Giudici di Piazza Cavour hanno ribadito che, “in tema di oneri deducibili dal reddito delle persone fisiche, l'art. 10, comma 1, lett. c), D.P.R. n. 917 del 1986, limita la deducibilità, ai fini dell'applicazione dell'IRPEF, solo all'assegno periodico  e non anche a quello corrisposto in unica soluzione al coniuge, in conseguenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nella misura in cui risulta da provvedimento dell'autorità giudiziaria. Tale differente trattamento, come affermato dalla Corte Costituzionale nella ordinanza n. 383 del 2001, è riconducibile alla discrezionalità legislativa la quale, riguardando due forme di adempimento tra loro diverse, una soggetta alle variazioni temporali e alla successione delle leggi, l'altra capace di definire ogni rapporto senza ulteriori vincoli per il debitore, non risulta né irragionevole, né in contrasto con il principio di capacità contributiva” (Cass. n. 16462/2002; Cass. n.23659/2006;).

Infine, gli Ermellini hanno rilevato come già in passato in tema di Irpef, l'art. 10 del D.P.R. n. 597/73 (poi confluito nell'art. 10 del D.P.R. n. 917/86)  non consentisse la deducibilità dal reddito dell'assegno corrisposto in un'unica soluzione, ai sensi dell'art. 5, comma 8, della legge n. 898 del 1970, all'ex coniuge, come affermato dalla Corte Costituzionale nelle ordinanze n. 383 del 2001 e n. 113 del 2007, non solo perché si tratta di norma agevolativa, non suscettibile di estensione, ma anche perché l'assegno periodico e l'attribuzione una tantum (pure se rateizzata) costituiscono forme di adempimento dell'obbligo a carico del divorziato differenti per natura giuridica, struttura e finalità.

Per le motivazioni suddette la sentenza impugnata è stata cassata poiché non conforme ai suesposti principi di diritto, con condanna alle spese processuali a carico del contribuente.

 

IL REGOLAMENTO DI UNA CASSA PROFESSIONALE NON PUÒ PREVEDERE CHE L'ESERCIZIO DELLA LIBERA PROFESSIONE SI PRESUMA PER TUTTI GLI ISCRITTI ALL'ALBO PREVEDENDO COSÌ IL VERSAMENTO DEL CONTRIBUTO MINIMO INTEGRATIVO ANCHE DA PARTE DEI PENSIONATI.

CORTE DI CASSAZIONE  –  SENTENZA  N. 28109 DEL 31 OTTOBRE 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 28109 del 31 ottobre 2019, ha statuito che le Case di previdenza privatizzate, pur godendo della autonomia organizzativa, non possono statuire, nei loro regolamenti, previsioni contrarie alla legge quanto ai requisiti di iscrizione e, soprattutto, al riparto degli oneri probatori.

Nel caso di specie, un geometra in pensione non aveva tempestivamente comunicato la cessazione della propria attività professionale, donde lo stesso risultava ancora iscritto alla propria Cassa professionale.

Per l’effetto, la Cassa pretendeva il versamento del contributo minimo integrativo dovuto obbligatoriamente da tutti gli iscritti.

Infatti, l'esercizio della libera professione si presume per tutti gli iscritti all'Albo, salvo prova contraria fornita dall'interessato (art. 22 L. 773/82).

La Corte di Appello accoglieva il ricorso del geometra, atteso che lo stesso aveva provato di non aver svolto alcuna attività post pensione.

L’Ente di previdenza, insoddisfatto, ricorreva per la cassazione della sentenza.

I Giudici di legittimità, pur riconoscendo l'autonomia gestionale, organizzativa, amministrativa e contabile delle Casse professionali, autonomia che consente loro di regolamentare le prestazioni a proprio carico (D.Lgs. 509/94), hanno ricordato che tale autonomia non può spingersi fino a derogare i presupposti per l'iscrizione ed il relativo onere probatorio.

Il ricorso pertanto è stato rigettato.

 

IL PAGAMENTO A MEZZO RAVVEDIMENTO OPEROSO PRIMA DELL’APERTURA DEL DIBATTIMENTO NON LIBERA L’IMPRENDITORE CHE HA EVASO L’IVA DALLA CONDANNA PENALE

CORTE DI CASSAZIONE –  SEZIONE PERNALE – SENTENZA N. 44515 DEL 31 OTTOBRE 2019.

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 44515 del 31 ottobre 2019, ha statuito che, in caso di mancato pagamento dell’IVA, al fine di evitare la condanna per il reato di evasione fiscale, è necessario l’estinzione del debito prima del dibattimento.

Nel caso di specie, il legale rappresentante di una società era stato condannato, in Corte di Appello, per evasione fiscale per non aver adempiuto al pagamento dell’IVA nonostante avesse richiesto, come attenuante, il fatto di aver provveduto all’estinzione del debito presentando un’adesione al ravvedimento operoso rateizzato prima dell’apertura del dibattimento.

I Giudici di legittimità hanno respinto il ricorso del legale rappresentante atteso che egli si trovava al di fuori delle specifiche ipotesi di non punibilità di cui all'art. 13 c. 1 D.Lgs. 74/2000.

Infatti, come ricordato dai Giudici nomofilattici, l'imputato può provvedere, entro l'apertura del dibattimento, al pagamento del debito e, in tal modo, potrà ottenere l’assoluzione per non punibilità.

Il ricorrente non aveva provveduto, però, all'integrale corresponsione del dovuto, ma solamente prestato adesione alla rateizzazione delle somme di pertinenza dell'Erario.

 

LA DIFESA DA AGGRESSIONE NON E’ RISSA E, PERTANTO, RENDE IL LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 29090 DELL’11 NOVEMBRE 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 29090 dell’11 novembre 2019, ha ritenuto illegittimo – in quanto sproporzionato – il licenziamento intimato ad un dipendente che, per difendersi da un'aggressione, aveva provocato gravi lesioni ad un collega.

La Corte d'Appello dell’Aquila, a conferma della sentenza del Tribunale di Avezzano, giudicava illegittimo ma efficace il licenziamento e, per l’effetto, condannava la società datrice al pagamento dell’indennità risarcitoria quantificata in 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita dal lavoratore.

La Corte fondava il proprio convincimento sulla sproporzione del provvedimento, perché non si era trattato di rissa bensì di una colluttazione nel corso della quale entrambi avevano riportato lesioni, talché era bastato l’intervento di una sola persona per sedare il diverbio e non c’erano stati colpi violenti. Nel contempo però, la Corte escludeva che si fosse trattato di una mera difesa volta a contenere l’aggressione del collega, il quale, anzi, era stato sovrastato dalla sua forza fisica e ne aveva riportato gravissime lesioni, confermando così il licenziamento.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, dopo aver ricostruito l'avvenimento in base alle motivazioni della Corte territoriale, e nel confermare la condotta del dipendente licenziato, hanno escluso che si fosse trattato di una  rissa proprio perché la colluttazione era stata agevolmente sedata da una sola persona ed il dipendente aveva agito solo per difendersi da un'aggressione. Inoltre, il lavoratore, dipendente della società dal 1997, non era mai stato soggetto ad alcun procedimento disciplinare e pertanto, la sua condotta non era, dunque, idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario con il datore di lavoro e a giustificare – sotto il profilo della proporzionalità – il conseguente licenziamento.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

   Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro.

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Modificato: 25 Novembre 2019