30 Novembre 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

IL DIRITTO AL PASSAGGIO ALLA NEWCO DEVE ESSERE PROVATO DAL LAVORATORE CHE INVOCA L’ACCORDO EX ART. 47, COMMA 5, DELLA L. 428/90

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 25804 DEL 13 NOVEMBRE 2020

 

La Corte di Cassazione, sentenza n° 25804 del 13 novembre 2020, ha statuito che spetta al lavoratore di provare le condizioni per ottenere l’assunzione in capo al datore subentrante, nell’ambito dei procedimenti traslativi di cui all’art. 2112 c.c. e art. 47 della L. 428/1990.

La questione esaminata dai Giudici della Suprema Corte ha riguardato il caso di un pilota, dipendente della società Alitalia, collocato in cigs per quattro anni per la crisi che aveva investito Alitalia e che rivendicava il proprio asserito diritto ad essere assunto – senza soluzione di continuità – in capo alla società Alitalia CAI S.p.A., succeduta alla compagnia Alitalia, anche in virtù di un accordo ex art. 47, comma 5, della L. 428/90.

Entrambi i gradi di merito avevano dato torto al ricorrente; in particolare, la Corte distrettuale rigettava la prospettazione di una continuità ope legis del rapporto di lavoro, atteso che riteneva, in primo luogo, anche in considerazione della peculiarità della vicenda, che non fosse ravvisabile una fattispecie rientrante nell'ambito operativo del trasferimento di azienda; rilevava, poi, che l'accordo di cui è causa conteneva chiaramente una serie di criteri per la individuazione del personale da assumere e che l'originario ricorrente non aveva allegato, e successivamente dimostrato, di essere in possesso degli ulteriori requisiti, oltre all'abilitazione alla guida del Boeing B-777, quali la localizzazione, i carichi familiari e l'anzianità aziendale.

Gli Ermellini, nel confermare quanto statuito nei gradi di merito, hanno precisato che l'onere della prova circa la ricorrenza delle condizioni previste da un accordo sindacale ex art. 47, comma 5, l. n. 428/1990, che preveda il diritto alla costituzione di un (nuovo) rapporto di lavoro subordinato, grava in via esclusiva sul lavoratore, onere – nella fattispecie – non assolto, donde la corretta esclusione del dipendente dal passaggio alla newco.

 

IN MATERIA DI RINUNZIE E TRANSAZIONI LA DICHIARAZIONE DEL LAVORATORE DEVE ESSERE RILASCIATA NELLA CONSAPEVOLEZZA DI ADBICARE SU DIRITTI DETERMINATI O DETERMINABILI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 23385 DEL 23 OTTOBRE 2020.

 

La Corte di Cassazione, sentenza n° 23385 del 23 ottobre 2020, ha confermato, in riferimento alla interpretazione del contratto di transazione, che per verificare il suo effettivo contenuto, occorre indagare se le parti, mediante l'accordo, abbiano perseguito la finalità di porre fine all'incertus litis eventus, senza tuttavia che sia necessario che esse esteriorizzino il dissenso sulle contrapposte pretese.

Nel caso de quo, il Tribunale di Venezia aveva dichiarato inammissibile la domanda di un dirigente, proposta nei confronti di una Spa nei cui confronti era stato nominato amministratore delegato, senza che fosse determinato il relativo compenso per la specifica carica. Il dirigente aveva perciò chiesto il pagamento, con riguardo all'anno 1997, nella misura commisurata a quella che nel 1998 il Consiglio aveva determinato in favore del nuovo amministratore delegato, dando atto altresì di avere rinunciato alle somme relative al 1996 per dedizione alla società. Il primo giudice aveva rilevato che la questione posta era stata già conciliata con un accordo transattivo intervenuto tra le parti. La Corte di appello di Venezia, sul gravame proposto dal dirigente, aveva confermato la pronuncia di primo grado.

Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione il dirigente – amministratore duolendosi del tenore dell'accordo e dell'immotivata svalutazione degli elementi letterali risultanti dallo stesso che avevano riguardato esclusivamente il rapporto di lavoro dirigenziale come Direttore generale, senza riferimento esplicito anche ai compensi quale Amministratore delegato e ad una contestuale rinuncia ad essi.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso precisando che, in materia di rinunzie e transazioni, con riguardo alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, la dichiarazione del lavoratore può assumere il suddetto valore sempre che risulti accertato, sulla base dell'interpretazione del documento, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati ovvero obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi. All'uopo, hanno continuato gli Ermellini, l'oggetto del negozio transattivo va identificato non in relazione alle espressioni letterali usate dalle parti, bensì in rapporto all'oggettiva situazione di contrasto che le parti stesse hanno iniziato a comporre attraverso reciproche concessioni in relazione alle posizioni assunte dalle stesse, non solo nella lite in atto ma anche in vista di una controversia che possa insorgere tra loro e che esse intendono prevenire; il giudice di merito, al fine di indagare sulla portata e sul contenuto transattivo di una scrittura negoziale, può attingere ad ogni elemento idoneo a chiarire i termini dell'accordo, ancorché non richiamati dal documento, senza che ciò comporti violazione del principio in base al quale la transazione deve essere provata per iscritto.

In riferimento, quindi, alla interpretazione del contratto di transazione, per verificare se sia configurabile tale negozio ed il suo effettivo contenuto, occorre indagare innanzi tutto se le parti, mediante l'accordo, abbiano perseguito la finalità di porre fine all'incertus litis eventus, senza tuttavia che sia perciò necessario che esse esteriorizzino il dissenso sulle contrapposte pretese, né che siano usate espressioni direttamente rivelatrici del negozio transattivo, la cui esistenza può anche essere desunta da qualsiasi elemento che esprima la volontà di porre fine ad ogni ulteriore contesa.

Nel caso in esame, hanno concluso gli Ermellini, i giudici di seconde cure avevano ritenuto, dopo aver ripercorso tutte le vicende relative ai ruoli svolti dal dirigente presso la società, culminati con l'accordo conciliativo raggiunto per la risoluzione anticipata del rapporto, che la transazione avesse posto fine in modo definitivo non solo al rapporto dirigenziale, ma a tutte le questioni riguardanti anche il ruolo svolto da amministratore delegato.

 

LA MANCANZA TEMPORANEA DI LIQUIDITA’ NON LEGITTIA L’OMESSO VERSAMENTO DELLE IMPOSTE, E’ NECESSARIO CHE RICORRANO CIRCOSTANZE ANOMALE E LO STOP ALL’ATTIVITÀ.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARAIA – ORDINANZA N. 20389 DEL 28 SETTEMBRE 2020

 

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n° 20389 del 28 settembre 2020, ha statuito che la mancanza temporanea di liquidità non basta per evitare la sanzione in caso di omessi versamenti, in quanto occorrono circostanze anomale e imprevedibili oltre a dimostrare di aver interrotto la propria attività.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour, ribaltando in toto i verdetti della CTP di Salerno e della CTR della Campania, hanno rigettato le doglianze di una società in fallimento che aveva impugnato alcune cartelle esattoriali notificate dall’Agenzia delle Entrate per il mancato pagamento delle imposte, contestando le sanzioni irrogate, che secondo il contribuente, non erano dovute per causa di forza maggiore, stante la grave crisi finanziaria dell’azienda e il mancato sostegno dei soci.

Per gli Ermellini, la forza maggiore per il mancato versamento delle imposte invocata dalla società comporta due tipi di elementi:

  • oggettivo, legato ad una situazione anomala ed estranea;
  • soggettivo che riguarda lo sforzo del contribuente per fronteggiare le conseguenze negative di tale situazione.

Pertanto, una temporanea carenza di liquidità, come nel caso de quo, non basta ad evitare il pagamento della sanzione, in quanto è necessario, secondo i Giudici Supremi, che venga anche interrotta l’attività ordinaria, che siano messe in atto delle operazioni straordinarie e che si ricorra ad una procedura di crisi o di insolvenza.

In nuce, la S.C., sulla scorta di quanto illustrato, ha altresì evidenziato come la nozione di forza maggiore richiamata non può essere delimitata in relazione all’impossibilità assoluta dell’adempimento, ma deve ricomprendere circostanze anormali e imprevedibili, le cui conseguenze non avrebbero potuto essere evitate, malgrado l’adozione di tutte le precauzioni del caso.

 

LEGITTIMA LA SCELTA DEL DATORE DI LAVORO DI LIMITARE LA PROCEDURA DI LICENZIAMENTO COLLETTIVO AD UNA SINGOLA UNITÀ PRODUTTIVA SE SUPPORTATA DA IDONEE MOTIVAZIONI ESPLICITATE NELLA LETTERA DI AVVIO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 25389 DELL’11 NOVEMBRE 2020

 

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 25389 dell’11 novembre 2020, ha affermato la legittimità del licenziamento collettivo per riduzione di personale avvenuto nell’ambito di una singola unità produttiva o reparto, purché determinato da ragioni di carattere tecnico – produttivo, che siano coerenti con le motivazioni fornite nella comunicazione preventiva alle rappresentanze sindacali aziendali, ex art. 4 della Legge n. 223/1991.

Nel caso di specie, i lavoratori, adibiti ad una particolare sede aziendale, avevano impugnato il recesso dal rapporto intimato dal datore di lavoro al termine della procedura di licenziamento collettivo, a causa di uno stato di crisi economica dell’attività in una particolare provincia, dovuta alla perdita di un cliente e quindi alla riduzione delle commesse.

La Corte d’Appello, riformando la sentenza di primo grado favorevole al datore di lavoro, aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento; pertanto, il datore di lavoro ricorreva in Cassazione.

I Giudici di Piazza Cavour, confermando il disposto della Corte d’Appello, hanno affermato che la procedura di licenziamento collettivo può essere circoscritta ad una particolare sede aziendale, ma a condizione che la circostanza sia giustificata da esigenze tecnico – produttive, che sarà onere del datore di lavoro indicare all’interno della comunicazione inviata alle rappresentanze sindacali, secondo quanto disposto dall’art. 4 comma 3 della Legge n. 223/1991, per consentire a queste ultime di valutare l’opportunità dei licenziamenti programmati.

Tali esigenze però non sussistono, a parere dei Giudici della Suprema Corte, laddove i lavoratori sottoposti alla procedura di licenziamento risultino idonei, per esperienze acquisite, a svolgere le stesse mansioni dei lavoratori adibiti alle unità produttive non sottoposte a procedura di licenziamento collettivo.

Nel caso in oggetto, il datore di lavoro aveva mancato di indicare all’interno della comunicazione gli elementi da cui era possibile dedurre la sostanziale infungibilità dei lavoratori interessati dai licenziamenti per obsolescenza delle loro mansioni; pertanto, in mancanza di specifiche motivazioni a supporto della scelta  di una riduzione del campo di applicazione della procedura, la valutazione sui lavoratori interessati dai licenziamenti deve essere necessariamente estesa all’intero complesso aziendale.

Sulla base di queste motivazioni, la Suprema Corte, confermando l’illegittimità dei licenziamenti, ha rigettato il ricorso del datore di lavoro.

 

LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO PER SOTTRAZIONE DI DENARO DALLE CASSE DEL DATORE PER DESTINARLI A FINALITA’ ESTRANEE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 25039 DEL 9 NOVEMBRE 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 25039 del 9 novembre 2020, ha confermato la legittimità del licenziamento disciplinare intimato ad una lavoratrice per aver sottratto dalla cassa denaro poi utilizzato per finalità estranee agli scopi propri dell’attività esercitata dal datore di lavoro.

Nel caso preso in esame, infatti, una lavoratrice, dipendente di un’organizzazione sindacale, ricorreva in Corte di Appello avverso la sentenza del Tribunale di Bari che aveva rigettato il ricorso diretto ad ottenere l’accertamento della illegittimità del licenziamento, intimato per giusta causa, al fine di ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro ed il risarcimento del danno.

I Giudici di secondo grado hanno respinto il ricorso rilevando che il licenziamento della lavoratrice aveva rappresentato l’epilogo del procedimento disciplinare attivato a seguito di gravi irregolarità amministrative e contabili riscontrate in sede di ispezione ed ascrivibili alla responsabilità della lavoratrice stessa. Secondo i Giudici, infatti, la gravità dei fatti contestati aveva inficiato irrimediabilmente il vincolo fiduciario che sottende ad ogni rapporto di lavoro, rendendo impossibile la prosecuzione dello stesso.

La dipendente ricorreva per la cassazione della sentenza d’appello ma i Giudici della Suprema Corte hanno ritenuto il ricorso del tutto privo di fondamento. Nel corso del giudizio, infatti, non erano mai stati posti in discussione i capisaldi del licenziamento per giusta causa: la sussistenza della giusta causa di licenziamento e la tempestività e proporzionalità dell’azione disciplinare; inoltre, era stato chiaramente provato che la ricorrente avesse “prelevato dalle casse della organizzazione sindacale convenuta una serie di importi utilizzando tali somme per finalità assolutamente estranee agli scopi propri dell’attività sindacale”.

Ad maiora

IL PRESIDENTE

EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giusi Acampora, Pietro Di Nono, Fabio Triunfo e Michela Sequino.

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Modificato: 30 Novembre 2020