3 Dicembre 2018

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

LEGITTIMA L'APPOSIZIONE DEL PATTO DI PROVA ANCHE IN CASO DI REITERAZIONE DI PIU' CONTRATTI AVENTI AD OGGETTO LE MEDESIME MANSIONI.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 28252 DEL 6 NOVEMBRE 2018.

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 28252 del 6 novembre 2018, ha (ri)confermato la legittimità della clausola contenente il patto di prova anche nella reiterazione di contratti a termine purché sia funzionale all'imprenditore per verificare le qualità professionali del lavoratore.

Nel caso de quo, la Corte di Appello di Milano aveva accolto il ricorso di una società datrice avverso la sentenza con la quale il locale tribunale aveva accolto la domanda di una lavoratrice diretta alla declaratoria di nullità ed inefficacia del patto di prova e di conseguente illegittimità del licenziamento intimato a seguito del superamento del limite massimo di malattia consentito dal CCNL vigente durante il periodo di prova.

La Corte d'Appello aveva ritenuto che i pregressi rapporti di lavoro a tempo determinato, stipulati per la medesima attività di portalettere non fossero impeditivi per la validità dell'apposizione del patto di prova anche all'ultimo rapporto di lavoro stipulato a tempo indeterminato ma in contesti lavorativi e ambientali totalmente diversi; ciò, anche in considerazione delle immutate mansioni assegnate.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la lavoratrice.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ricordando che nel lavoro subordinato, il patto di prova tutela l'interesse di entrambe le parti del rapporto a sperimentarne la convenienza, dovendosi ritenere l'illegittimità del patto ove la suddetta verifica sia già intervenuta, con esito positivo, per le specifiche mansioni, per un congruo lasso di tempo. Ne consegue che la ripetizione del patto di prova in successivi contratti di lavoro tra le medesime parti e per le medesime mansioni è ammissibile nel caso di un mutamento del contesto sociale e lavorativo in modo che sia funzionale all'imprenditore per verificare non solo le qualità professionali, ma anche il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all'adempimento della prestazione.

I principi esposti, hanno concluso gli Ermellini, evidenziano la legittima apposizione del patto di prova anche nel caso in specie, trattandosi della riassunzione di lavoratrice che aveva interrotto l'ultimo rapporto di lavoro (durato solo alcuni mesi) da circa un anno e mezzo nonché in considerazione del mutato contesto sociale lavorativo, relativo ad una zona di recapito più ampia, caratterizzata dalla lontananza rispetto alla sede di residenza, con diversi rapporti con i colleghi e con l'ambiente.


NON DEDUCIBILE IL COSTO DOCUMENTATO DA UNA FATTURA TROPPO GENERICA NELLA DESCRIZIONE, SALVO PROVA CONTRARIA A CARICO DEL CONTRIBUENTE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 29290 DEL 14 NOVEMBRE 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 29290 del 14 novembre 2018, ha statuito che a fronte di una fattura dal contenuto generico (id: descrizione dell’operazione in maniera sommaria) è legittimo non riconoscere il diritto alla detrazione dell’imposta, salvo che il contribuente non produca ulteriore documentazione di supporto a prova di inerenza del costo.

IL FATTO

L’Agenzia delle Entrate emetteva avviso di accertamento nei confronti di un contribuente contestando l’indebita deduzione dei costi e l’indetraibilità dell’IVA in relazione a determinate operazioni in considerazione della mancata indicazione in fattura dei requisiti di contenuto formale quali natura, qualità e quantità dei beni e dei servizi oggetto delle singole operazioni.

Il contribuente ricorreva prontamente alla giustizia tributaria.

Sia la C.T.P. che la C.T.R. procedevano ad annullare l’avviso di accertamento osservando che non era necessaria la produzione di alcuna documentazione di supporto, in quanto non esisteva alcun elemento che rendeva incerta la prova fornita dalle scritture contabili regolarmente tenute e conformi ai criteri di inerenza; in particolare, tutti i costi ritenuti dall’Ufficio indeducibili erano di importo coerente con il volume di affari dell’impresa, regolarmente documentati, regolari sul piano civilistico e tributario e chiaramente connessi all’attività da cui l’impresa traeva i propri ricavi.

Da qui il ricorso per Cassazione da parte dell’Agenzia delle Entrate.

Orbene, gli Ermellini, con la sentenza de qua, riformando la decisione dei giudici tributari, che avevano fatto ricadere in capo all’Amministrazione finanziaria l’onere di provare l’irregolarità delle fatture contestate, hanno affermato in premessa che, nel caso di esistenza di regolare fattura deve ritenersi operante la presunzione di veridicità di quanto in essa rappresentato, con conseguente onere dell'Amministrazione finanziaria di fornire prova dell'indeducibilità, per non inerenza, del costo. Ciò sempre che, sia in tema di imposizione diretta che in tema di IVA, la fattura sia redatta in conformità ai requisiti di forma e contenuto prescritti dall'art. 21 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633.

In particolare, i Giudici di Piazza Cavour hanno precisato che:

  • in tema di imposte sui redditi, l’irregolarità della fattura, non redatta in conformità ai requisiti di forma e contenuto prescritti dal decreto IVA, fa venir meno la presunzione di veridicità di quanto in essa rappresentato e la rende inidonea a costituire titolo per il contribuente ai fini del diritto alla deduzione del costo relativo; ciò consente all’amministrazione finanziaria di contestare l’effettività delle operazioni ad essa sottese e ritenere indeducibili i costi nella stessa indicati (Cass. n. 21446/2014 e Cass. n. 211/2018);
  • in tema di IVA, ai fini della detrazione dell’imposta, è prescritta l’indicazione dell’entità e della natura dei servizi forniti, nonché della specificazione della data in cui è effettuata o ultimata la prestazione di servizi; ciò al fine di consentire all’Ufficio di controllare l’assolvimento dell’imposta dovuta e, se del caso, la sussistenza del diritto alla detrazione dell’IVA.

Pertanto, i Giudici del Palazzaccio, nel caso de quo uniformandosi alla normativa dell’Unione europea in materia, che prescrive l’obbligatorietà dell’indicazione dell’entità e della natura dei servizi forniti, nonché della specificazione della data in cui è effettuata o ultimata la prestazione di servizi, ciò, al fine di permettere all’Ufficio di controllare l’assolvimento dell’imposta dovuta e, se del caso, la sussistenza del diritto alla detrazione dell’IVA, hanno ritenuto fondata la contestazione dell’Amministrazione finanziaria ponendo a carico del contribuente, che chiede la detrazione dell’IVA, l’onere di dimostrare di soddisfare le condizioni per fruirne e, per conseguenza, di fornire elementi e prove, anche integrativi e succedanei rispetto alle fatture, che l’Ufficio fiscale ritenga necessari per valutare se si debba riconoscere, o no, la detrazione richiesta, anche se l’Agenzia delle Entrate non si può limitare all’esame della sola fattura, ma deve tener conto anche delle informazioni complementari fornite dal contribuente, tenuto che la normativa comunitaria assimila a una fattura tutti i documenti o messaggi che modificano e fanno riferimento in modo specifico e inequivocabile alla fattura iniziale.


LA DICHIARAZIONE INVIATA OLTRE I TERMINI NON CONSENTE L'UTILIZZO DEL CREDITO D’IMPOSTA INDICATO IN COMPENSAZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 27621 DEL 30 OTTOBRE 2018

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n° 27621 del 30 ottobre 2018, ha statuito che il credito indicato in una dichiarazione dei redditi omessa, poiché inviata tardivamente oltre i 90 giorni dalla scadenza, non può essere compensato con le imposte risultanti dal modello relativo all’annualità successiva.

Il caso di specie riguarda una persona fisica che, in relazione al periodo d'imposta 2001, aveva presentato la relativa dichiarazione dei redditi Unico PF 2002 in data 21 gennaio 2005, ben oltre i termini previsti, e pertanto l’Agenzia delle Entrate, considerando la dichiarazione omessa, ha provveduto altresì a disconoscere il credito riferito al periodo d'imposta de quo, indicato in tale dichiarazione.

I Giudici di Prime Cure accoglievano le doglianze della contribuente, ritenendo che il ritardo nella presentazione della dichiarazione dei redditi non poteva comportare la perdita del diritto all'utilizzo dei crediti in essa contenuti, così come non determina l'impossibilità per il fisco di riscuotere le imposte dovute relative a tale dichiarazione.

Ex adverso, per i Giudici di Piazza Cavour, in base all’art. 2, comma 7, del DPR n. 322/1998,  l'Amministrazione Finanziaria ha la facoltà di riscuotere le somme dovute dal contribuente in base agli imponibili indicati nelle dichiarazioni omesse, senza permettere di utilizzare in compensazione per l'anno successivo i crediti di imposta indicati in tali dichiarazioni.

In nuce, gli Ermellini, con l’ordinanza de qua, rifacendosi alla giurisprudenza di legittimità in tema di IVA (id: Cassazione, sentenze n. 19326/2011 e n.3228/2002) sono arrivati alla conclusione che l'omessa presentazione della dichiarazione annuale esclude, per il contribuente, la possibilità di recuperare il credito maturato nel relativo periodo di imposta attraverso il trasferimento della detrazione del periodo di imposta successivo, e nel qual caso, il contribuente può solo esercitare il diritto al rimborso, laddove ci fossero i presupposti.


LA RIAPERTURA DEL PROCEDIMENTO DISCIPLINARE NEL PUBBLICO IMPIEGO SPIEGA I SUOI EFFETTI EX TUNC.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 29376 DEL 14 NOVEMBRE 2018

La Corte di Cassazione, sentenza n° 29376 del 14 novembre 2018, ha (ri)statuito, in materia di pubblico impiego contrattualizzato, la autonomia del procedimento disciplinare rispetto a quello penale, pur nella ipotesi di cui all’art. art. 55-ter comma 2 del decreto delegato 165/2001.

Come noto, il citato articolo ha la finalità di regolare i possibili contrasti fra gli esiti del procedimento disciplinare con quello penale, prevedendo, in particolare, che qualora il fatto penale posto a base di un provvedimento disciplinare non sia accertato in sede penale, su richiesta dell’interessato, si riapre il procedimento disciplinare per confermare, modificare o annullare il provvedimento adottato, tenendo conto –appunto – delle risultanze del processo penale, ma ferma la sua autonomia.

Orbene, nel caso in esame, una lavoratrice dell’Agenzia delle Entrate, licenziata, nel 2010, per un fatto dal quale era stata assolta in sede penale, adiva gli Ermellini all’esito della sentenza emessa dai Giudici distrettuali che, dichiarando la insussistenza della giusta causa di licenziamento, ne ordinavano la reintegrazione e la corresponsione delle retribuzioni arretrate (solo) dal 2015, riapertura del procedimento disciplinare dopo la sentenza di assoluzione in sede penale.

I Giudici di Piazza Cavour hanno statuto che la (ri)determinazione (giudiziale e stragiudiziale) di annullamento, modifica o conferma del provvedimento disciplinare, all’esito della riapertura ex art. 55-ter, ha effetto ex tunc. Per l’effetto, le retribuzioni arretrate andavano calcolate dal 2010, data del licenziamento, e non dal 2015, data di riapertura del procedimento disciplinare.


NELL’OPPOSIZIONE ALLA CARTELLA ESATTORIALE LA LEGITTIMAZIONE ATTIVA SPETTA SEMPRE AL CEDENTE ED IL CESSIONARIO E’ OBBLIGATO IN SOLIDO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 29424 DEL 15 NOVEMBRE 2018.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 29424 del 15 Novembre 2018, ha (ri)statuito che in materia di obbligazione contributiva si applica l’art. 2560 del c.c., ossia il principio di solidarietà passiva solo in presenza di una evidente risultanza debitoria dai libri contabili. 

Nel caso in commento, la Corte d’Appello di Campobasso, a conferma del Tribunale di primo grado, sentenziava per il difetto di legittimazione attiva del cessionario rispetto ad una opposizione a cartella esattoriale relativa a dei contributi INPS del precedente titolare che aveva ceduto l’azienda alla ricorrente.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, in linea con il ragionamento logico giuridico dei Giudici di merito, hanno, in primis, ricordato che la struttura processuale dell’opposizione alla cartella è assimilato al rito previsto per l’opposizione a decreto ingiuntivo. In ordine ai motivi posti a base del ricorso, dichiarandoli entrambi infondati, ha precisato che l’obbligazione contributiva è autonoma rispetto alle eventuali modifiche soggettive dei rapporti di lavoro.  Dunque, in base all’art. 2112 c.c.  il cessionario si fa carico dei rapporti di lavoro in essere e dei crediti di questi ultimi rafforzando la garanzia dell’adempimento grazie alla solidarietà passiva fra cedente e cessionario. Diversa, invece, è la legittimazione processuale ad agire in opposizione, atteso che ciò consentirebbe all’effettivo debitore di sottrarsi completamente dalle proprie responsabilità mediante una imposizione della sostituzione del debitore al creditore pubblico. In conclusione, in base all’art. 2560 del c.c., l’obbligazione contributiva non comporta una sostituzione nella posizione debitoria del cessionario bensì esclusivamente una solidarietà di quest’ultimo con il cedente.

 Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

   Hanno collaborato alla redazione i Colleghi Aldo Cunzio e Francesco Pierro

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Modificato: 3 Dicembre 2018