7 Dicembre 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

I CONTRATTI COLLETTIVI AZIENDALI SI APPLICANO A TUTTI I DIPENDENTI AD ECCEZIONE DI QUEI LAVORATORI CHE, ADERENDO AD UNA ORGANIZZAZIONE SINDACALE DIVERSA DA QUELLE SOTTOSCRITTRICI, NE CONDIVIDANO L’ESPLICITO DISSENSO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 26509 DEL 20 NOVEMBRE 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 26509 del 20 novembre 2020, ha (ri)statuito che “i contratti collettivi aziendali sono applicabili a tutti i lavoratori dell’azienda, ancorché non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti, con l’unica eccezione di quei lavoratori che, aderendo ad una organizzazione sindacale diversa, ne condividono l’esplicito dissenso dell’accordo”.

Ecco i fatti.

Alcuni lavoratori adivano il Tribunale di Mantova per ottenere alcune differenze retributive per straordinario e trasferte, calcolate secondo il CCNL e non in base al contratto collettivo aziendale, vigente in azienda. In particolare, i ricorrenti sostenevano che, in base all’art. 11 comma 10 del CCNL, l’efficacia dei contratti aziendali era subordinata alla adesione degli interessati; nella fattispecie, non solo mancava l’adesione, ma addirittura detti accordi erano stati contestati.

Sia i Giudici di primo grado che quelli distrettuali rigettavano le doglianze dei lavoratori, espressamente indicando che il comma 9 della predetta fonte contrattuale nazionale prevedeva che “gli accordi collettivi si applicano alla totalità dei lavoratori dipendenti delle aziende che rientrano nel campo di applicazione degli accordi stessi”.

Da qui il ricorso per la cassazione della sentenza.

Ebbene, gli Ermellini, nel richiamare il consolidato principio giurisprudenziale della applicabilità generalizzata dei contratti collettivi aziendali (sentenze 12272/2013, 6044/2012, 10353/2004, 17674/2002, 5953/199), hanno altresì rilevato come correttamente la sentenza della Corte di Appello avesse escluso la inapplicabilità del comma 10 perché contrario al comma 9 ed alla generale regola dell’applicabilità dei contratti aziendali a tutta la popolazione aziendale.

Peraltro, in particolare, i ricorrenti si erano limitati ad affermare una generale diminuzione del 20% del loro trattamento economico, per straordinario e trasferte, senza addurre elementi delibatori su cui fondare i loro assunti.

Per l’effetto, ne è conseguito il rigetto del ricorso.


COSTITUISCE IMPONIBILE CONTRIBUTIVO L'IMPORTO DELLA INDENNITA' PER FERIE NON GODUTE NELL'IPOTESI IN CUI SIA DECORSO IL TERMINE DI DICIOTTO MESI DOPO L'ANNO DI MATURAZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 26160 DEL 17 NOVEMBRE 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 26160 del 17 novembre 2020, ha (ri)confermato che l’obbligo di versare i contributi previdenziali sull’indennità per mancata fruizione delle ferie, entro il termine massimo previsto dalla legge, sussiste anche se tale indennità non è stata effettivamente erogata.

Nel caso de quo, l'INPS aveva richiesto ad una società datrice, con verbale ispettivo, il pagamento della contribuzione relativa agli importi dell'indennità sostitutiva di ferie non godute da tredici dipendenti, nonostante il decorso di diciotto mesi dalla maturazione. La Corte d'Appello di Perugia aveva accolto l'impugnazione proposta dalla società avverso la sentenza di primo grado, di rigetto del ricorso in opposizione al verbale ispettivo. La Corte territoriale, ritenendo infondata la tesi dell'Istituto secondo la quale il debito contributivo sarebbe configurabile già dal diciottesimo mese successivo al mancato godimento, aveva desunto l'inconfigurabilità di un emolumento a cui poter riconnettere un obbligo contributivo se non quando il rapporto di lavoro sarebbe cessato.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'INPS, sostenendo che l'obbligo contributivo sussiste a prescindere dalla effettiva erogazione dell'importo maturato a causa dell'inadempimento del datore di lavoro, in quanto prestazione resa in violazione di leggi a tutela del lavoratore per la quale vige il disposto dell'art. 2116 c.c. (id: automaticità delle prestazioni).

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso preliminarmente precisando che, in ragione del disposto del D.Lgs. n° 66/2003, art.10 (come modificato dal D.Lgs. n° 213/2004) "il prestatore di lavoro ha diritto a un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane. Tale periodo, salvo quanto previsto dalla contrattazione collettiva…….., va goduto per almeno due settimane, consecutive in caso di richiesta del lavoratore, nel corso dell'anno di maturazione e, per le restanti due settimane, nei 18 mesi successivi al termine dell'anno di maturazione. Il predetto periodo minimo di quattro settimane non può essere sostituito dalla relativa indennità per ferie non godute, salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro". La giurisprudenza della Corte di legittimità in fattispecie in cui il rapporto di lavoro sia cessato e non vi sia più concreta possibilità per il lavoratore di fruire dell'intero periodo di ferie maturate, ha consolidato il principio secondo il quale l'indennità sostitutiva di ferie non godute è assoggettabile a contribuzione previdenziale, essendo in rapporto di corrispettività con le prestazioni lavorative effettuate nel periodo di tempo che avrebbe dovuto essere dedicato al riposo.

Del pari, hanno continuato gli Ermellini, dall'autonomia del rapporto previdenziale dal rapporto di lavoro discende l'erroneità della tesi sostenuta dalla sentenza impugnata. Infatti, il sistema di finanziamento previdenziale prevede che, alla base del calcolo dei contributi previdenziali, deve essere posta la retribuzione dovuta per legge o per contratto individuale o collettivo e non quella di fatto corrisposta.

Da ciò discende che, laddove il lavoratore non abbia fruito delle ferie maturate entro il termine indicato dal D.Lgs. n°66/2003, art.10 e cioè è stato impiegato anche mentre avrebbe dovuto riposare, è certamente integrato il presupposto dell'obbligo contributivo giacché la prestazione è stata resa in un periodo in cui la stessa non avrebbe dovuto essere resa, generandosi una maggiore capacità contributiva, quantificabile in termini economici quale indennità per le ferie non godute.

Resta, per tale ragione, irrilevante ai fini previdenziali, hanno concluso gli Ermellini, che l'indennità possa essere monetizzata tra le parti del rapporto di lavoro solo alla cessazione del medesimo e cioè quando una di tali parti o entrambe deciderà di porvi fine.


LA SANZIONE ACCESSORIA DELLA CHIUSURA PER TRE GIORNI CONSECUTIVI PER MANCATA/INESATTA EMISSIONE DELLA RICEVUTA FISCALE PRESCINDE DA UN IMPORTO MINIMO ESSENDO SUFFICIENTE LE TRE VIOLAZIONI ACCERTATE NEL QUINQUENNIO.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – ORDINANZA N. 26322 DEL 19 NOVEMBRE 2020

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, ordinanza n° 26322 del 19 novembre 2020, ha statuito che è legittima la sospensione dell'attività di ristorazione per tre giorni se viene rilevata la non corrispondenza tra l'importo indicato nelle ricevute fiscali con quello incassato a mezzo POS, ancorché lo "sconto" sia di appena cinquanta centesimi e che, nella totalità delle infrazioni accertate, risulti essere inferiore di complessivi 1,50 euro, in quanto l'art. 12, comma 2, del D.lgs.n. 471/1997, indica come presupposto della sanzione il definitivo accertamento delle tre violazioni, prescindendo invece da un importo minimo del corrispettivo non documentato.

Il caso di specie riguarda un controllo in materia di corretta emissione di fatture e scontrini fiscali effettuato presso un'attività di ristorazione, durante il quale la Guardia di Finanza riscontrava irregolarità nell'emissione di ricevute fiscali, e pertanto nei confronti del locale, oltre a un avviso di contestazione, veniva elevata la sanzione accessoria della sospensione dell'esercizio dell'attività per la durata di tre giorni consecutivi. In particolare, i finanzieri avevano accertato che, tre ricevute fiscali contestate indicavano, ciascuna, un corrispettivo superiore ad euro 0,50 a quello incassato con il POS e dunque le denunciate irregolarità erano state determinate dall'omessa indicazione nelle ricevute fiscali di uno sconto asseritamente praticato di euro 0,50.

Il provvedimento de quo veniva impugnato dalla società destinataria prima innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale, la quale emetteva ordinanza di non luogo a provvedere essendo il provvedimento di chiusura dell'esercizio già eseguito, e poi innanzi alla Commissione Tributaria Regionale con esito positivo, che aveva ritenuto la sanzione accessoria spropositata, afflittiva e vessatoria rispetto alla affermata presunta irregolarità di mancato incasso di complessivi euro 1,50.

Ex adverso, i Giudici di piazza Cavour, hanno evidenziato che, in tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, l'Art. 12, c.2, del D.lgs. n.471/1997 prevede la sospensione della licenza o dell'autorizzazione all'esercizio ovvero dell'esercizio dell'attività medesima nel caso in cui siano state accertate nel corso di un quinquennio tre distinte violazioni dell'obbligo di emettere la ricevuta o lo scontrino fiscale, e la norma in parola, da un lato presuppone il definitivo accertamento delle violazioni contestate e, dall'altro, prescinde da un ammontare minimo dei corrispettivi complessivamente non documentati.

Per gli Ermellini, inoltre, ai fini dell'irrogazione della sanzione accessoria della sospensione dell'esercizio dell'attività, non rilevano neppure le modalità di contestazione delle infrazioni, in quanto “la disposizione normativa è volta a sanzionare la condotta illecita rappresentata dalla quadrupla violazione dell'obbligo di emettere lo scontrino fiscale commessa nel corso del quinquennio, a prescindere da come sia stata effettuata la contestazione in ciascuna ipotesi".

In nuce, la S.C. ha sottolineato il carattere speciale del menzionato art. 12, c. 2, del D.lgs. n. 471/1997 rispetto alla norma generale contenuta nell'art. 16, c.3, del D.lgs. n. 472/1997, con la conseguenza che l'irrogazione di detta sanzione non è impedita dalla definizione agevolata prevista da quest'ultime disposizione, ed ai fini dell'irrogazione della sanzione, non assume alcun rilievo l'ammontare dei corrispettivi complessivamente non documentati.


LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE CHE MOLESTA UNA COLLEGA DI LAVORO

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 25977 DEL 16 NOVEMBRE 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 25977 del 16 novembre 2020, ha confermato la legittimità del licenziamento disciplinare intimato ad un dipendente reo di aver molestato sessualmente una collega.

Nel caso preso in esame, infatti, un lavoratore impugnava innanzi al Tribunale di Bologna il licenziamento per giusta causa intimatogli dalla società datrice di lavoro per aver pronunciato epiteti ingiuriosi nei confronti di colleghe, per aver posto in essere molestie sessuali nei confronti di una collega in particolare ed aver effettuato un accesso non autorizzato sul conto corrente del marito di quest’ultima.

I Giudici di prime cure, dichiarando l’illegittimità del procedimento espulsivo, condannavano la società alla reintegra nel posto di lavoro ed al pagamento di una indennità risarcitoria.

Proposto reclamo da parte della società, la Corte d’Appello ribaltava la sentenza accogliendo il gravame e ritenendo legittimo il licenziamento. Secondo i Giudici, infatti, gli addebiti contestati al dipendente, la giusta causa di recesso e la proporzionalità della sanzione espulsiva erano stati puntualmente dimostrati. Era stata, inoltre, esclusa la violazione dell’art. 4 L.300/70, essendo consentito al datore “verificare se i propri dipendenti utilizzino indebitamente gli strumenti messi a loro disposizione per fini esclusivamente professionali”.

Il dipendente ricorreva per la cassazione della sentenza d’Appello ma la Suprema Corte confermava la legittimità del licenziamento: la società datrice di lavoro, infatti, aveva dimostrato che i fatti addebitati al dipendente configuravano un inadempimento degli obblighi contrattuali, essendo venuto meno il vincolo fiduciario nei confronti del dipendente che aveva tenuto condotte così gravi ed offensive nei confronti di una collega di lavoro. I fatti addebitati al lavoratore, inoltre, erano di una gravità tale da potersi configurare la giusta causa di licenziamento e la proporzionalità dell’applicazione della massima sanzione, ciò a prescindere dalla rilevanza penale della condotta, stante l’autonomia, in tema di licenziamento, tra il procedimento penale e quello disciplinare.

La Corte escludeva, inoltre, la violazione dell’art. 4 L. 300/70 atteso che gli accertamenti effettuati dalla società rientravano nella categoria dei cosiddetti controlli difensivi, ossia “verifiche dirette ad accertare comportamenti illeciti e lesivi dell’immagine aziendale e costituenti, astrattamente, reato”. Il dipendente, infatti, dopo essersi procurato il nome del marito della collega, ne aveva visionato il conto corrente e riferito il saldo alla collega stessa; a seguito di ciò, il titolare del conto corrente aveva chiesto chiarimenti e di conseguenza la società aveva dovuto accertare la condotta del proprio dipendente. Si era trattato, dunque, di controlli eseguiti ex post, cioè dopo l’attuazione del comportamento contestato, così “da prescindere dalla mera sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa, e quindi non può ritenersi in alcun modo compromessa la dignità e la riservatezza dei lavoratori, atteso che non corrisponde ad alcun criterio logico-sistematico garantire al lavoratore, in presenza di condotte illecite sanzionabili penalmente o con sanzione espulsiva, una tutela maggiore di quella riconosciuta a terzi estranei all’impresa”.

I Giudici, infine, evidenziavano che in azienda era stato sottoscritto un accordo sindacale, volto a disciplinare le modalità di svolgimento dei controlli sui lavoratori, in cui era prevista l’utilizzazione da parte della società delle informazioni ottenute nell’ipotesi di sussistenza di indizi di reato. Nel caso specifico, si rientrava certamente in questa fattispecie sia perché il dato letterale dell’accordo richiedeva la presenza di “indizi” di reato e non di “prove” e, quindi, contemplava la possibilità di effettuare una prima verifica sulla natura dei comportamenti commessi, ai fini del successivo inoltro alle autorità competenti; sia  perché la contestazione, facendo riferimento ad accessi ad un conto corrente di terze persone, era riferibile inequivocabilmente al reato di violazione della privacy.


ESCLUSA L’INDENNITÀ DI PREAVVISO SE IL LAVORATORE NON IMPUGNA IL LICENZIAMENTO INTIMATO ANCHE PER GIUSTA CAUSA

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 26513 DEL 20 NOVEMBRE 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 26513 del 20 novembre 2020, ha statuito l’esclusione dell’indennità di preavviso per il lavoratore che non ha impugnato il licenziamento per giusta causa.

Nel caso de quo, una lavoratrice adiva il Tribunale avverso il provvedimento di licenziamento intimatole dal datore di lavoro, chiedendo l’accertamento della condotta illegittima tenuta da quest’ultimo, che l’aveva prima privata delle sue mansioni e successivamente posta in malattia per stato ansioso-depressivo. Questo comportamento, secondo la difesa della dipendente, era stato preordinato allo scopo di farle superare il periodo di comporto per poter recedere dal rapporto di lavoro. La lavoratrice chiedeva, inoltre, il pagamento dell’indennità di preavviso, che il datore di lavoro non le aveva erogato in quanto la lettera di recesso oltre a contenere l’indicazione del superamento del periodo di comporto, riportava anche la giusta causa di licenziamento per prestazione lavorativa insufficiente. Il Tribunale accoglieva parzialmente il ricorso della lavoratrice, che ricorreva in secondo grado di giudizio per la parziale riforma della sentenza.

La Corte d’Appello rigettava il ricorso e la lavoratrice ricorreva dunque in Cassazione.

I Giudici della Suprema Corte, confermando il disposto della Corte Territoriale, hanno affermato che all’interno della lettera di licenziamento erano presenti due distinti atti: il licenziamento per giusta causa ed il licenziamento per superamento del periodo di comporto, con effetto dalla data di esaurimento di detto periodo. A parere dei Giudici di legittimità, le due motivazioni dovevano essere entrambe impugnate non solo in sede stragiudiziale, ma anche depositando il ricorso giudiziale avverso il provvedimento di licenziamento, che pur motivato con due causali restava comunque unico. La sola contestazione stragiudiziale, infatti, non è sufficiente ad interrompere gli effetti del licenziamento disciplinare. Nel caso in esame, la lavoratrice aveva impugnato il recesso per giusta causa solo a livello stragiudiziale, mancando di ricorrere in giudizio contro quel provvedimento ed a causa di tale omissione il licenziamento era diventato definitivo. Su tali presupporti, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della dipendente, ritenendo non spettante l’indennità di mancato preavviso.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giusi Acampora, Pietro Di Nono, Fabio Triunfo e Michela Sequino.

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Modificato: 7 Dicembre 2020