9 Dicembre 2019

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

CHI RICHIEDE IL PAGAMENTO DI COMPENSI IN REGIME DI PARASUBORDINAZIONE DEVE DAR PROVA DELLE SINGOLE PRESTAZIONI CHE DEL DIRITTO AL CORRISPETTIVO RAPPRESENTANO I FATTI COSTITUTTIVI.

CORTE DI CASSAZIONE –  SENTENZA N. 27910 DEL 30 OTTOBRE 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n°27910 del 30 ottobre 2019, ha (ri)confermato, in tema di diritto al pagamento del compenso in regime di parasubordinazione ex art. 409 c.p.c., che il prestatore è onerato della prova delle singole attività/opere realizzate.

Nel caso de quo, la Corte di Appello di Caltanissetta, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, aveva respinto la domanda proposta da un lavoratore autonomo nei confronti della società committente e volta al pagamento di un compenso per l'attività professionale di "coordinatore", asseritamente svolta nell'arco di due anni, giusta delibera del Consiglio di Amministrazione della società.

In relazione al mancato pagamento di una presunta attività prestata in regime di parasubordinazione, la Corte territoriale aveva ritenuto che il lavoratore "non avesse fornito nessuna prova, né aveva chiesto di provare, di aver svolto alcuna delle attività allo stesso espressamente delegate", avendo, ex adverso, allegato, unicamente, il titolo contrattuale.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il lavoratore insoddisfatto, criticando la sentenza impugnata nella parte in cui avrebbe escluso l'applicazione al rapporto di para-subordinazione del principio di sufficienza dell'allegazione del titolo contrattuale e di deduzione dell'inadempimento di controparte, con onere di questa di provarne l'inesistenza.

Orbene, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso confermando le statuizioni dei Giudici di merito.

Infatti, hanno rappresentato gli Ermellini, i Giudici d'appello hanno correttamente applicato il principio già sancito dalla Suprema Corte (Cass. n°12681 del 2003; Cass. n°413 del 1999; più recente: Cass. n°10286 del 2016) secondo cui: "chi chiede il compenso di prestazioni eseguite nell'ambito di un rapporto di cosiddetta parasubordinazione (art.409 c.p.c., n°3) non può limitarsi a provare l'esistenza del rapporto, ma deve provare le singole prestazioni che del diritto al corrispettivo rappresentano i fatti costitutivi". Il principio generale è desumibile dall'art. 2697 c.c., secondo cui la parte ha l'onere di provare i fatti che allega e dai quali pretende che derivino conseguenze giuridiche a suo favore.

 

LA MERA PRESENTAZIONE DI UNA ISTANZA IN AUTOTUTELA DA PARTE DEL CONTRIBUENTE NON ESIME QUEST’ULTIMO DALL’ONERE DI PAGARE ENTRO IL TERMINE DI LEGGE, DECORRENTE DALLA COMUNICAZIONE D’IRREGOLARITÀ, AL FINE DI USUFRUIRE DELLA RIDUZIONE DELLA SANZIONE

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 29650 DEL 14 NOVEMBRE 2019.

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 29650 del 14 novembre 2019, ha statuito che la mancata risposta dell’Amministrazione all’istanza in autotutela presentata dal contribuente non esime quest’ultimo dall’onere di pagare entro il termine di legge, decorrente dalla comunicazione d’irregolarità, al fine di usufruire della riduzione della sanzione,  né costituisce violazione del principio di collaborazione e buona fede sancito dall’art. 10 della  legge 212/2000 (c.d. Statuto del contribuente).

IL FATTO

Un contribuente impugnava una cartella di pagamento, relativa all’anno di imposta 2008, recante l’iscrizione a ruolo delle maggiori sanzioni derivanti dal ritardato pagamento degli importi di cui alla comunicazione di irregolarità notificatagli, ai sensi dell’art. 36-bis, comma 3 del D.P.R. n. 600/73.

 Il ricorrente, in particolare, eccepiva la nullità della cartella impugnata per vizio della notifica e, nel merito, deduceva che il ritardato pagamento (avvenuto cinque giorni dopo la scadenza del termine di trenta giorni prescritto dalla legge al fine di godere della riduzione delle sanzioni al 10%) era stato determinato dal comportamento dell’Amministrazione finanziaria, la quale, in violazione del principio di leale collaborazione sancito dall’art. 10 della L. n. 212 del 2000, non aveva risposto ad una specifica istanza di autotutela presentata in relazione alla comunicazione di irregolarità.

 La C.T.P. adita accoglieva il ricorso e compensava tra le parti le spese processuali. Avverso tale pronuncia proponeva appello l’Agenzia delle Entrate ribadendo che la mancata risposta dell’Amministrazione alla istanza di autotutela del privato non può determinare alcuna nullità dell’atto impositivo, né è idonea ad incidere sui termini previsti dalla legge per il pagamento delle imposte. La C.T.R. confermava la sentenza impugnata e condannava l’Ufficio alla refusione delle spese del giudizio.

Da qui il ricorso per Cassazione da parte dell’Agenzia delle Entrate che ribadiva che non vi è alcun obbligo da parte dell’Amministrazione finanziaria di fornire una risposta alle istanze di autotutela.
Orbene, i Giudici delle Leggi, con la sentenza de qua, hanno accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate osservando che l’Ufficio aveva fatto corretta applicazione dell’art. 2, del D.Lgs. n. 462/97 a mente del quale "le somme che, a seguito dei controlli automatici, ovvero dei controlli eseguiti dagli uffici, effettuati ai sensi degli articoli 36-bis del D.P.R. 600/73 , e 54-bis del D.p.r. 633/72, risultano dovute a titolo d'imposta, ritenute, contributi e premi o di minori crediti già utilizzati, nonché di interessi e di sanzioni per ritardato o omesso versamento, sono iscritte direttamente nei ruoli a titolo definitivo" (comma 1), con la successiva precisazione (comma 2) che "l’iscrizione a ruolo non è eseguita, in tutto o in parte, se il contribuente o il sostituto d'imposta provvede a pagare le somme dovute entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione, prevista dai commi 3 dei predetti articoli 36-bis e 54-bis, ovvero della comunicazione definitiva contenente la rideterminazione in sede di autotutela delle somme dovute, a seguito dei chiarimenti fomiti dal contribuente o dal sostituto d'imposta. In tal caso, l'ammontare delle sanzioni amministrative dovute è ridotto ad un terzo”.

Per quanto sopra gli Ermellini hanno poi chiarito che “solo nel caso in cui l’Amministrazione finanziaria, a seguito dei chiarimenti forniti dal contribuente, ridetermini in sede di autotutela l’importo delle somme dovute, decorrerà un nuovo termine dalla relativa comunicazione”.

Pertanto, hanno concluso i Giudici di piazza Cavour,  “la mera presentazione di una istanza in autotutela da parte del contribuente, ove non seguita da una comunicazione di rideterminazione delle somme dovute, non esime quest’ultimo dall’onere di pagare entro il termine di legge, decorrente dalla comunicazione d’irregolarità, al fine di usufruire della riduzione della sanzione, attesa l'autonomia del procedimento di riscossione coattiva da quello introdotto dalla richiesta di provvedere in autotutela. La mancata risposta dell’Amministrazione all’istanza presentata in autotutela, conseguentemente, non incide sui termini di legge per il pagamento degli importi richiesti, né costituisce violazione del principio di collaborazione e buona fede sancito dall’art. 10 della legge 212/2000”.

 

IN FASE DI ACCERTAMENTO TRIBUTARIO LA PERCENTUALE DI RICARICO, PER LA DETERMINAZIONE DI MAGGIORI RICAVI, DEVE ESSERE CALCOLATA DAGLI SCONTRINI FISCALI ACQUISITI IN SEDE DI VERIFICA.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. N. 30363 DEL 21 NOVEMBRE 2019

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 30363 del 21 novembre 2019, ha statuito che, nella quantificazione presuntiva di maggiori ricavi, la percentuale di ricarico di vendita di beni al dettaglio, deve essere calcolata considerando il prezzo risultante dagli scontrini fiscali e non limitarsi a calcolare i valori dalle dichiarazioni rese dal contribuente in sede di accesso.

IL FATTO

Il caso sottoposto al vaglio di legittimità è quello di un esercizio commerciale (bar) a cui venivano contestati maggiori ricavi applicando una percentuale di ricarico sulla base delle dichiarazioni rese dal contribuente in occasione della verifica fiscale. In primo grado la C.T.P. accoglieva il ricorso della società, sentenza che veniva poi ribaltata a favore dell’Agenzia delle Entrate dalla C.T.R. che nel confermare la validità dell’accertamento evidenziava che l’avviso di accertamento analitico-induttivo, pur sulla base di una formale regolarità dei dati contabili, era sostenuto da idonea motivazione in ordine all'entità del ricarico rilevato.

Avverso tale decisione ricorreva in Cassazione il contribuente il quale ribadiva, tra l’altro, che i Giudici di appello non avessero tenuto conto delle inesattezze palesate negli atti difensivi ai fini della determinazione del prezzo di vendita con particolare riferimento alla determinazione della percentuale di ricarico, in quanto:

  1. i Giudici di appello non avevano tenuto conto delle inesattezze emerse negli atti difensivi ai fini della determinazione del prezzo di vendita;
  2. non era esatto il numero dei prodotti venduti perché non si era tenuto conto dello sfrido né dell’autoconsumo dovendosi considerare che i sette impiegati consumavano tre caffè al giorno;
  3. non potevano essere applicate le percentuali di ricarico sui prezzi dei prodotti relativi al 2007, mentre l’anno in contestazione era il 2003;
  4. non si poteva applicare la media aritmetica semplice per il computo delle percentuali di ricarico data la disomogeneità dei prodotti venduti;
  5. si doveva tener conto del periodo di chiusura forzata dell’attività commerciale.

Orbene, i Giudici del Palazzaccio, con la sentenza de qua, hanno accolto il ricorso del contribuente, affermando che il Giudice di appello avrebbe dovuto verificare e valutare tutte queste allegazioni difensive tra cui la necessità di considerare i prezzi risultanti dagli scontrini senza fermarsi alle dichiarazioni del contribuente, così facendo è incorso in una motivazione insufficiente.

Infine gli Ermellini, hanno ribadito che, “in tema di accertamento induttivo fondato sulle percentuali di ricarico della merce venduta, il ricorso alla media aritmetica semplice è consentito quando risulti l'omogeneità della merce, dovendosi invece fare ricorso alla media ponderale quando, tra i vari tipi di merce, esiste una notevole differenza di valore e i tipi più venduti presentano una percentuale di ricarico inferiore a quella risultante dal ricarico medio (Cass. n. 33458/2018; Cass. n. 17379/2009; Cass. n. 4312/2015).

Per le motivazioni suddette la Corte suprema ha cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Commissione tributaria regionale in diversa composizione per la determinazione di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

 

LA SOPPRESSIONE DELLA MANSIONE PER COSTITUIRE GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO DI LICENZIAMENTO VA DIMOSTRATA TENENDO CONTO DELL’INTERO COMPLESSO AZIENDALE.

CORTE DI CASSAZIONE –   SENTENZA N. 30070 DEL 19 NOVEMBRE 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 30070 del 19 novembre 2019, ha (ri)statuito che la soppressione della mansione, qualora addotta quale causa del giustificato motivo oggettivo del licenziamento, vada provata con riferimento all’intera azienda e non soltanto ad un reparto/area territoriale.

Nel caso in esame, la Corte di Appello aveva confermato la pronuncia di primo grado circa l'illegittimità del licenziamento del lavoratore con condanna della società alla reintegrazione ed al pagamento della retribuzione globale di fatto dal recesso nella misura massima di 12 mensilità perché il datore di lavoro avrebbe dovuto provare che la figura del coordinatore del servizio di raccolta rifiuti porta a porta era stata soppressa su tutto il territorio cittadino e non solo, come nel caso in esame, sulla zona affidata al dipendente licenziato.

Secondo la Corte territoriale, infatti, la società non aveva offerto prove della sussistenza del giustificato motivo oggettivo posto alla base del licenziamento in quanto non aveva proceduto al licenziamento per la soppressione “totale” della mansione di coordinatore del servizio porta a porta ma solamente di quella figura su una limitata zona del territorio comunale.

La società ricorreva in Cassazione sottolineando, tra gli altri motivi, anche l'ingerenza nelle scelte imprenditoriali da parte della Corte di Appello.

Tale argomentazione non è stata accolta dalla Suprema Corte, secondo la quale i Giudici di merito avevano effettuato in concreto una valutazione circa  l'effettività della ragione addotta dall'imprenditore a giustificazione del recesso, traendo dalla totale mancanza di essa il convincimento di un uso errato del potere datoriale: “se la ragione palesata dall'imprenditore per giustificare il licenziamento del dipendente si dimostra priva di effettività, il Giudice può legittimamente convincersi che il reale motivo del recesso fosse rimasto occulto e, come tale, difforme dal modello legale”.

 

I PROFESSIONISTI ASSOCIATI NON SONO TENUTI ALL’ISCRIZIONE PRESSO L’INAIL 

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 30428 DEL 21 NOVEMBRE 2019.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 30428 del 21 novembre 2019, ha statuito che i professionisti associati non sono tenuti all’assicurazione Inail tranne che svolgano lavori manuali oppure sotto il vincolo della subordinazione.

La Corte d'Appello Milano, a conferma della sentenza del Tribunale di Milano, respingeva la richiesta dell’INAIL  basata sull’assimilazione di un’associazione fra professionisti alle società semplici, in ragione del fatto che lo statuto individuava gli architetti quali unici soggetti atti a garantire lo svolgimento delle attività dello studio professionale, con conseguente inquadramento della loro opera tra quella per cui è prevista la copertura Inail in base all'articolo 4, comma 1, n. 7, del Testo unico 1124/1965.

Invece, secondo i Giudici dell’appello l’assimilazione è illegittima data la natura professionale svolta dagli architetti.

Orbene, nel caso de quo, gli Ermellini, a conferma del ragionamento logico giuridico dei Giudici distrettuali, hanno ricordato che non sussiste l'obbligo assicurativo nei confronti dei componenti di studi professionali associati, in quanto la tendenza ordinamentale espansiva di tale obbligo può operare, sul piano soggettivo, solo nel rispetto e nell'ambito delle norme vigenti, che, come per il libero professionista, in nessun luogo (art. 1, 4 e 9 D.P.R. 1124/65) ne contemplano l'assoggettamento per le associazioni professionali.

Diversamente, già la Corte di Cassazione con sentenza n. 5382/2002 aveva a suo tempo stabilito che i soci delle cooperative e di ogni altro tipo di società sono assoggettati all'assicurazione Inail solo quando prestano attività lavorativa di tipo manuale o se svolgono attività intellettuale di sovraintendenza al lavoro altrui, qualora quest'ultima avvenga in forma subordinata e dunque in tali ipotesi anche laddove si manifesti nelle associazione fra professionisti, restando pur sempre un'attività libero professionale resa in forma autonoma.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono, Attilio Pellecchia e Fabio Triunfo.

  Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro.

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Modificato: 9 Dicembre 2019