14 Dicembre 2020

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

LA PREVENTIVA DETERMINAZIONE DEL DANNO, C.D. “CLAUSOLA PENALE”, PRESUPPONE LA SPECIFICA CONTRATTAZIONE E L’ACCETTAZIONE DEL DIPENDENTE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 27422 DEL 1° DICEMBRE 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 27422 del 1° dicembre 2020, ha statuito che la clausola penale, recte la preventiva quantificazione del danno derivante da un inadempimento contrattuale, necessita – ai fini della sua efficacia – di una specifica contrattazione e della successiva accettazione.

Ecco i fatti.

La società Trenitalia risultava soccombente in entrambi i gradi di merito nel giudizio promosso da un suo dipendente, capo treno, che aveva smarrito n° 56 biglietti, in occasione del furto di un borsello agganciato al suo trolley, subendo la trattenuta – giudicata illegittima – della somma di € 1.120,00#.

La tesi della società si fondava sulla propria circolare interna (id: disposizione unilaterale) n° 1/2009 con la quale era stato stabilito il valore convenzionale del singolo biglietto ed era stato previsto, in caso di smarrimento, l'obbligo di risarcire il danno.

Più in dettaglio, la società riteneva che una volta accertato che il regolamento interno era stato inviato ai dipendenti, esso, per espressa previsione contrattuale-collettiva, sarebbe già fonte obbligatoria per il dipendente, senza necessità di una sua esplicita adesione o di una successiva ratifica di carattere collettivo. Accettato nei termini esposti il regolamento, pertanto, il lavoratore sarebbe vincolato ad esso anche quanto alle conseguenze economiche dei suoi inadempimenti e per effetto della clausola penale stabilita.

Ebbene, gli Ermellini hanno confermato il decisum della Corte distrettuale. I Supremi Giudici hanno precisato che, la clausola penale è una pattuizione accessoria del contratto convenuta dalle parti per rafforzare, da un lato, il vincolo contrattuale e per stabilire, dall'altro, preventivamente, una determinata sanzione per il caso di inadempienza o di ritardo nell'adempimento, con l'effetto di limitare alla prestazione prevista il risarcimento del danno indipendentemente dalla prova dell'effettivo pregiudizio economico verificatosi (cfr. Cass. n. 5305 del 1984, n. 10626 del 2007 e su fattispecie analoga alla presente Cass. n. 34119 del 2019).

Tuttavia, presupposto indispensabile per la sua esistenza è che essa sia stata oggetto di specifica contrattazione e comunque approvazione poiché la previsione di clausole penali accessorie al contratto di lavoro non si sottrae alla regola comune della necessità del consenso e non rientra tra i poteri unilaterali di conformazione della prestazione di lavoro rimessi alla parte datoriale (Cass. n. 8726 del 2019).

In definitiva, hanno concluso i Giudici nomofilattici, in mancanza di un "incontro di volontà" formalizzato in un atto, non può ravvisarsi, nella fattispecie, la sussistenza di alcuna clausola penale.

 

LE DICHIARAZIONI DEI LAVORATORI RESE IN SEDE DI ACCERTAMENTO ISPETTIVO POSSONO AVERE MAGGIOR RILIEVO RISPETTO A QUELLE EVENTUALMENTE RESE IN SEDE DI GIUDIZIO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 24208 DEL 2 NOVEMBRE 2020.

La Corte di Cassazione, sentenza n° 24208 del 2 novembre 2020, ha confermato che il valore delle dichiarazioni rese dai lavoratori in sede di accertamento possono, ai fini del convincimento del Giudice, prevalere su quelle rese in giudizio.

Nel caso de quo, il Tribunale di Lecco respingeva il ricorso di una società datrice nei confronti dell'INPS e avente ad oggetto opposizione a verbale di accertamento a seguito del quale l'Inps addebitava i contributi omessi per quattro lavoratori inquadrati come collaboratori coordinati e continuativi e riqualificati dagli ispettori come lavoratori subordinati.

Contro la sentenza la società aveva proposto appello, lamentando che la ritenuta subordinazione era contraddetta dalle risultanze istruttorie confermative della totale autonomia dei lavoratori, valutando erroneamente l'efficacia probatoria delle dichiarazioni rese in sede ispettiva, sfornite di alcun valore anche di presunzione semplice. Evidenziava, altresì, che l'Istituto non aveva provato gli elementi imprescindibili per qualificare il rapporto come subordinato e cioè la continuità della prestazione e la soggezione al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro.

Soccombente in entrambi i gradi del giudizio, la società ricorreva in Cassazione duolendosi, in sostanza, che i giudici di merito avessero attribuito maggior (e dirimente) rilievo alle dichiarazioni rese dinanzi agli ispettori verbalizzanti rispetto a quelle rese in giudizio.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso dichiarandolo inammissibile rispetto al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, oltre che infondato. Sul punto, la Suprema Corte ha evidenziato che il principio di autosufficienza, espresso nell'art. 366 c.p.c., nn. 3 e 4, impone infatti al ricorrente la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori, eventualmente con la trascrizione dei passi salienti. Il requisito dell'autosufficienza non può, peraltro, ritenersi soddisfatto nel caso in cui il ricorrente inserisca nel proprio atto di impugnazione la riproduzione fotografica di uno o più documenti (nella specie diverse decine), affidando alla Corte la selezione delle parti rilevanti e così una individuazione e valutazione dei fatti, preclusa al Giudice di legittimità.

Quanto alla infondatezza dei motivi, ovvero sul valore delle dichiarazioni rese dai lavoratori in sede ispettiva, gli Ermellini hanno evidenziato che la valutazione complessiva delle risultanze di causa ben consente al Giudice di attribuire maggior rilievo alle circostanze riferite dagli interessati ai verbalizzanti, nell'immediatezza dei fatti, piuttosto che alle circostanze da essi riferite in sede di deposizione in giudizio e che, in sostanza, i verbali di contravvenzione forniscono elementi di valutazione liberamente apprezzabili dal Giudice, il quale può peraltro anche considerarli prova sufficiente delle relative circostanze, sia nell'ipotesi di assoluta carenza di elementi probatori contrari – considerata la sussistenza in capo al datore di lavoro, obbligato ai versamenti contributivi, del relativo onere probatorio -, sia qualora il Giudice di merito, nel valutare nel suo complesso il materiale probatorio a sua disposizione, pervenga, con adeguata motivazione, al convincimento della effettiva sussistenza degli illeciti denunciati. 


SE IL PROFESSIONISTA OPPONE IL SEGRETO PROFESSIONALE SI RENDE NECESSARIA L’AUTORIZZAZIONE DEL MAGISTRATO AI FINI DELL’ISPEZIONE, A MENO CHE NON SI TRATTI DI CONTABILITÀ O DOCUMENTI PUBBLICI.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 34020 DEL 1° DICEMBRE 2020

La Corte di Cassazione, sentenza n° 34020 del 1° dicembre 2020, ha statuito che quando il professionista oppone il segreto professionale ai verificatori, l'ispezione fiscale deve essere sospesa in attesa della necessaria autorizzazione del magistrato a meno che non si tratti di contabilità e/o documenti pubblici.

Il caso di specie è relativo ad una società coinvolta in una frode fiscale, con alcune prove raccolte presso lo studio del legale di quest’ultima, con acquisizione dei documenti autorizzata dal Magistrato.

Con la sentenza de qua, i Giudici di Piazza Cavour, respingendo le doglianze della società contribuente, hanno voluto definire e regolamentare il caso in cui il professionista, nel corso dello svolgimento dell'attività accertativa presso il suo studio, non consenta l'accesso a determinati documenti eccependo in ordine agli stessi il segreto professionale. Nel qual caso, i verificatori non avranno altra alternativa che sospendere l'attività di verifica e richiedere la necessaria autorizzazione.

Infatti, per gli Ermellini, solo qualora l’autorizzazione sia concessa da parte del Magistrato, gli organi verificatori potranno riprendere l'attività di verifica finalizzata alla conseguente legittima acquisizione dei documenti per i quali in un primo momento era stato eccepito il segreto professionale.

Ex adverso, rimangono sempre esclusi dalla copertura del segreto professionale:

  • gli atti pubblici, i quali, proprio perché tali, non possono essere coperti dal segreto;
  • le scritture contabili, sia quelle del professionista che quelle del cliente, trattandosi di atti che la legge impone di redigere anche al fine di documentare e rendere accessibili al fisco i fatti che attengono all'attività economica esercitata dai contribuenti e le cui annotazioni, comunque, nulla rivelano in ordine ai contenuti dell'attività professionale prestata;
  • le fatture e le ricevute fiscali emesse dal professionista, in quanto, trattandosi di documenti che, per legge, devono essere conservati proprio in vista di un possibile controllo fiscale, appare irragionevole ritenere che possano essere sottratti all'ispezione anche attraverso l'eccezione del segreto professionale.

In nuce, per la S.C., il segreto professionale opposto ai verificatori, che rende necessaria l’autorizzazione del Magistrato, può riguardare solo ed esclusivamente notizie e documenti che attengono all'esercizio dell'attività.


L’INQUADRAMENTO DEL LAVORATORE AL LIVELLO CONTRATTUALE SUPERIORE NON PUO’ TRASCURARE LA VALUTAZIONE QUALITATIVA DELLE MANSIONI SVOLTE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 27344 DEL 30 NOVEMBRE 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 27344 del 30 novembre 2020, ha statuito che l’inquadramento del dipendente ad un livello superiore avviene sulla base di una valutazione non solo quantitativa, ma anche qualitativa delle mansioni svolte, a nulla rilevando l’eventuale comparazione con altri dipendenti cui siano affidati compiti identici.

Nel caso in oggetto, una lavoratrice adiva il Tribunale per chiedere l’inquadramento nella categoria dei quadri e nel livello contrattuale corrispondente, nonché per richiedere il pagamento delle differenze retributive dovute al diverso inquadramento. La stessa aveva infatti svolto funzioni di rappresentanza in sede di collegio arbitrale ed aveva avuto un ruolo di raccordo tra il personale e la dirigenza della società presso la quale lavorava, circostanza che aveva fatto ritenere congruente la sua attività lavorativa con la declaratoria del superiore livello di inquadramento contrattuale rivendicato.

Soccombente in entrambi i gradi di giudizio, il datore di lavoro ricorreva in Cassazione.

I Giudici di legittimità, confermando quanto già statuito dalla Corte territoriale, hanno affermato che, nella valutazione relativa all’attribuzione di una qualifica superiore in presenza di mansioni promiscue, laddove nulla sia previsto in maniera specifica dalla contrattazione collettiva, la prevalenza non deve essere determinata sulla base di una contrapposizione quantitativa delle mansioni, rilevando anche l’aspetto qualitativo riferito alla mansione maggiormente significativa dal punto di vista professionale, purché non eseguita sporadicamente o in maniera occasionale.

Nel caso de quo i Giudici della Corte d’Appello avevano rilevato l'inadeguatezza dell’inquadramento contrattuale di livello inferiore, considerata la marginalità delle mansioni corrispondenti al livello inferiore rispetto ai compiti effettivamente svolti dalla lavoratrice.

Inoltre, a parere dei giudizi di Piazza Cavour, non è condivisibile, né rilevante il motivo di doglianza presentato dal datore di lavoro secondo il quale l’inquadramento ad un livello inferiore era stato determinato da una comparazione soggettiva con altri dipendenti che avevano svolto le stesse mansioni, giacché non è presente nell’ordinamento un principio che imponga di garantire parità di retribuzione o di inquadramento ai lavoratori che svolgano le stesse mansioni, essendo solo garantito – a livello costituzionale – il principio della sufficienza ed adeguatezza retributiva. La stessa comparazione intersoggettiva non trova riscontro dal punto di vista normativo, poiché la Costituzione garantisce l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma non anche nei rapporti di natura privatistica.

Pertanto, sulla base delle osservazioni presentate la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del datore di lavoro.


SI CONFIGURA IL DEMANSIONAMENTO SE, PUR IN PRESENZA DI UN RUOLO DIRIGENZIALE, IL LAVORATORE SIA PRIVATO DI INCARICHI OPERATIVI E DI AGGIORNAMENTO PROFESSIONALE.  

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 27078 DEL 26 NOVEMBRE 2020

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 27078 del 26 novembre 2020, ha ritenuto l’azienda datrice di lavoro colpevole di demansionamento nei confronti di un dipendente a cui era stato assegnato un altisonante ruolo di dirigente ma completamente svuotato di incarichi operativi.

Nel caso preso in esame, infatti, un lavoratore agiva per il risarcimento del danno subìto a seguito del demansionamento operato dalla società datrice che, nominandolo “dirigente a disposizione del direttore generale” lo privava di incarichi operativi congelandone la carriera.

Il Tribunale riteneva fondate le richieste e condannava la società, ritenuta colpevole di demansionamento, al risarcimento del danno alla professionalità subito dal lavoratore. La Corte d’Appello, adita dalla società datrice, confermava la decisione ritenendo che, sebbene gli fosse stato conferito l’incarico di vice dirigenza, il lavoratore non aveva conservato la sua professionalità sia quantitativamente, a causa della scarsa o del tutto nulla attribuzione di incarichi direttivi, sia qualitativamente, in relazione al concreto esercizio dei poteri di delega in ordine ai quali non era risultato l’esercizio di poteri effettivi direttivi.

Per la cassazione di questa sentenza il datore proponeva ricorso sostenendo che non fosse stato preso in debita considerazione il conferimento del prestigioso incarico di “vice dirigenza” e che fosse necessaria una interpretazione evolutiva con riguardo alla peculiarità della categoria dirigenziale e, in particolare, del cosiddetto “top management”.

I Giudici di Cassazione, nel confermare il decisum della Corte distrettuale, hanno rilevato la sostanziale inattività del dipendente, il quale non veniva adibito ad alcuna attività confacente il proprio inquadramento, ed il mancato adempimento, da parte dell’azienda, all’onere di dimostrare di avere adibito il lavoratore a mansioni corrispondenti al suo profilo professionale. In riferimento al danno da demansionamento, inoltre, era stato correttamente dimostrato il danno mediante la prova per presunzioni, ponendo l’accento sulla rapida evoluzione delle tecnologie e delle relative conoscenze richiedenti un costante aggiornamento professionale venuto meno proprio a causa del demansionamento subìto. Evidente, infine, anche la lesione all’immagine professionale del lavoratore nell’ambito del contesto aziendale poiché, dopo una folgorante ascesa, improvvisamente ed inopinatamente, si era venuto a trovare “in un confinamento privo di qualsivoglia attività gestionale anzi, di qualsivoglia attività tout court”

 

Carissimi Colleghi, con questo numero si conclude il nostro impegno istituzionale per l’anno 2020 di Formare…informando. Vi auguriamo buone festività ed un proficuo 2021.

Arrivederci con il n. 1/2021 della rubrica “Formare…Informando” per il giorno 11.01.2021

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Giusi Acampora, Pietro Di Nono, Fabio Triunfo e Michela Sequino.

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Modificato: 14 Dicembre 2020