6 Dicembre 2021

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

 

LEGITTIMA LA VARIAZIONE DELLA COLLOCAZIONE TEMPORALE DELLA PRESTAZIONE LAVORATIVA, SE EFFETTUATA NEL RISPETTO DEI LIMITI LEGALI RELATIVI ALL’ORARIO DI LAVORO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 31349 DEL 3 NOVEMBRE 2021

La Corte di Cassazione, ordinanza n. 31349 del 3 novembre 2021, ha affermato che il datore può, nell’esercizio del potere direttivo, effettuare variazioni della collocazione temporale della prestazione lavorativa, purché nel rispetto dei limiti legali previsti.

Nel caso in esame una lavoratrice impugnava giudizialmente il provvedimento datoriale, con cui era stata assegnata ad un diverso reparto con orario di lavoro diverso da quello determinato in seguito ad accertamento giudiziale del diritto ad osservare un orario spezzato, per cause derivanti dalle condizioni di salute della dipendente.

Conveniva quindi in giudizio il datore di lavoro per ottenere l’attribuzione dell’orario di lavoro “spezzato”, già riconosciuto dalla precedente pronuncia del Tribunale, giacché le condizioni di salute non erano nel corso del tempo migliorate. Se in Tribunale la domanda veniva rigettata, i Giudici della Corte Distrettuale riformavano la pronuncia dei Giudici di prime cure. Il datore di lavoro ricorreva dunque in Cassazione.

La Suprema Corte, osserva in primis che l’espressione orario di lavoro è da intendersi in maniera pluridirezionale, sia come indicazione della quantità della prestazione lavorativa, sia della distribuzione della prestazione in un determinato arco temporale, adempiendo, inoltre, alla funzione di delimitare l’entità della prestazione lavorativa esigibile.

Su tale materia il potere direttivo del datore di lavoro deve essere esercitato rispettando i limiti legali di durata della prestazione lavorativa, allo stesso modo la sua quantità non potrà essere modificata in maniera unilaterale dal datore di lavoro, al quale residua però l’esercizio del potere direttivo in merito alla sua distribuzione. Nel caso in esame, i Giudici di legittimità hanno ritenuto applicabile lo ius variandi che può subire una limitazione con riferimento ai soli contratti part time, nei quali la programmabilità del tempo libero del lavoratore assume carattere essenziale. Tale circostanza non è applicabile nel caso del contratto full time nel quale l’esigenza di tutela del tempo libero del lavoratore rappresenterebbe una negazione del diritto dell’imprenditore ad organizzare l’attività lavorativa, che potrebbe essere limitato solo da accordi che lo condizionino o vincolino.

Pertanto, per le ragioni esposte, la Suprema Corte accoglie il ricorso del datore di lavoro, rinviando la sentenza alla Corte d’Appello.


NEL CASO DI INDEBITA COMPENSAZIONE, MEDIANTE UTILIZZO DI CREDITO FITTIZIO, SUSSISTE SEMPRE LA RESPONSABILITA’ DEL SINDACO DELLA SOCIETA’ A TITOLO DI CONCORSO SEMPRE CHE ABBIA ESPRESSO PARERE FAVOREVOLE ALL’ACQUISTO DEL CREDITO FISCALE.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N.40324 DEL 9 NOVEMBRE 2021

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 40324 del 9 novembre 2021, ha statuito che nel reato di indebita compensazione commesso mediante utilizzo di credito fittizio debba risponderne, a titolo di concorso, anche il sindaco della società che abbia espresso parere favorevole all’acquisto di credito fiscale inesistente ovvero di un compendio aziendale contenente un credito fiscale inesistente.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour, hanno rigettato in toto le doglianze del presidente del collegio sindacale di una società contro la decisione confermativa delle misure cautelari disposte nei suoi confronti nell’ambito di un’indagine per i reati di indebita compensazione e di ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza. Il ricorrente, a cui, segnatamente, erano state applicate le misure dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria e del divieto di esercitare imprese o uffici direttivi di persone giuridiche e imprese o professioni per la durata di un anno, era indiziato per aver espresso parere favorevole all’adozione di una delibera di acquisto di ramo d’azienda da una SRL, del quale faceva parte un credito IVA totalmente inesistente, delibera poi approvata e seguita dall’utilizzazione di tale credito a fini di compensazione IRPEF e IRPEG.

L’indagine lo vedeva coinvolto, nella medesima qualità e in concorso con il presidente del consiglio di amministrazione, anche per aver esposto alla Commissione di Vigilanza sulle società di calcio professionistiche, al fine di ostacolarne l’esercizio delle relative funzioni, fatti materiali non rispondenti  al vero sulla situazione economica e patrimoniale della società, attestando la regolarità dei versamenti fiscali e previdenziali e dei pagamenti a tesserati, lavoratori e collaboratori, nonché il ripianamento della carenza finanziaria e l’adempimento di vari debiti.

Con la sentenza de qua, gli Ermellini, hanno ribadito che il collegio sindacale di una società, e i singoli componenti di esso, sulla base di quanto disposto nel Codice Civile, sono in condizione di confortare le scelte degli organi sociali o, al contrario, di attivarsi efficacemente per impedire le operazioni della persona giuridica, ove le ritengano illegittime.

Il collegio sindacale, infatti, a norma dell'art. 2403 c.c., ha il dovere di vigilare, tra l'altro, “sul rispetto dei principi di corretta amministrazione”, senza contare che i sindaci, a norma dell’art. 2407 c.c. “sono responsabili della verità delle loro attestazioni” nonché “responsabili solidalmente con gli amministratori per i fatti o le omissioni di questi, quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica”, e la loro responsabilità opera anche nei confronti dei creditori e dei terzi comunque danneggiati.

In nuce, per la S.C. il collegio sindacale, con il suo parere favorevole, pone in essere una condotta causalmente rilevante, quanto meno in termini agevolativi e di rafforzamento del proposito criminoso rispetto alla realizzazione del reato ma, affinché possa risultare la responsabilità del sindaco, occorre anche dimostrarne la consapevolezza. È infatti necessario accertare, ossia, che il medesimo abbia espresso parere favorevole essendo consapevole sia dell’inesistenza del credito fiscale, sia della strumentalità dell’acquisto di tale credito al successivo utilizzo ai fini della compensazione.

 

LICENZIAMENTO LEGITTIMO PER LA DIPENDENTE SORPRESA A DORMIRE DURANTE IL SUO TURNO DI LAVORO MA CON RISARCIMENTO.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 34422 DEL 15 NOVEMBRE 2021

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 34422/2021, depositata il 15 novembre, ha statuito il diritto ad un risarcimento per la dipendente legittimamente licenziata perché sorpresa a dormire in auto durante il suo turno di lavoro. Per i Giudici, difatti, il provvedimento espulsivo adottato dalla società è da considerare eccessivo.

Nel caso in trattazione una lavoratrice veniva sorpresa dal suo referente di cantiere, di notte durante il turno di lavoro, a dormire all'interno della sua autovettura parcheggiata in una zona dove era assolutamente vietato il transito per motivi di sicurezza. La donna, ritenuto illegittimo il conseguente provvedimento, impugnava il licenziamento con preavviso innanzi al Tribunale di Bari che rigettava la domanda.

La Corte di Appello, in riforma della sentenza impugnata, accoglieva il ricorso e dichiarava risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento, tuttavia condannava la società al pagamento, in favore della lavoratrice, di una indennità risarcitoria pari a dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. I Giudici d'Appello infatti ritenevano sussistente il comportamento contestato alla lavoratrice, provato da filmati video, e connotato dai requisiti di coscienza e volontarietà però ritenevano la sanzione sproporzionata rispetto alla gravità della condotta.

Contro tale pronuncia la società datrice ricorreva alla Corte di Cassazione, articolando vari motivi tra cui la contraddittorietà della motivazione che riteneva legittimo il licenziamento ma sproporzionato rispetto alla gravità della condotta. Anche i Giudici Supremi, però, ritenevano corretto il ragionamento compiuto in appello, poiché, sebbene fosse stata evidenziata la condotta scorretta della lavoratrice, sfociata nell'ipotesi disciplinare dell'abbandono del posto di lavoro, era stata valutata anche “la proporzionalità” tra l'inadempimento della lavoratrice e la sanzione adottata dall'azienda. Gli Ermellini, infatti, tenevano a sottolineare che il Giudice nell’esercizio del suo potere non può limitarsi a verificare se il fatto addebitato sia riconducibile ad una previsione contrattuale ma deve valutare in concreto la condotta addebitata e quindi la proporzionalità della sanzione perché, pur a fronte dei paletti fissati dalla contrattazione collettiva, è fondamentale “la mediazione della valutazione del Giudice sull'accertamento della proporzione tra sanzione e fatto, con logica sua rilevanza in tema di individuazione delle conseguenze.”

 

IN CASO DI INFORTUNIO SUL LAVORO, IL DIPENDENTE È SEMPRE ESENTE DA RESPONSABILITÀ, SALVO CHE PONGA IN ESSERE CONDOTTE ESTREME E SCOLLEGATE DA OGNI NESSO CON LA PRESTAZIONE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 35364 DEL 18 NOVEMBRE 2021

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 35364 del 18 novembre 2021, ha ripercorso un orientamento giurisprudenziale ormai cristallizzato secondo cui la vittima di un infortunio sul lavoro può ritenersi responsabile esclusiva dell'accaduto solo allorquando abbia tenuto un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute (id: rischio elettivo).

Il caso in esame ha riguardato la pretesa del dipendente al risarcimento del danno occorsogli a seguito di caduta nella tromba di un ascensore dismesso del cantiere e non debitamente segnalato come luogo pericoloso, nell’adempimento non dell’atto materiale proprio della prestazione ma di attività prodromica che, seppur non rientrante nelle direttive datoriali, era collegata ad essa (id: rischio improprio). Oltre alla mancata segnalazione di pericolo contestata alla società committente nella cui disponibilità rientrava l’ambiente di lavoro, l’infortunato lamentava anche violazione dell’obbligo di informazione sui rischi da parte dalla società datrice.

Sebben nei due gradi di giudizio, entrambe le società – appaltante e appaltatrice – siano risultate avulse da ogni responsabilità, gli Ermellini hanno invece ribaltato l’esito rinviando la controversia alla Corte d’Appello per un erroneo apprezzamento degli elementi di fatto.

In tema di infortuni sul lavoro, la ratio di ogni normativa antinfortunistica è quella di prevenire le condizioni di rischio insite negli ambienti di lavoro e nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia degli stessi lavoratori destinatari della tutela, per proteggere l’integrità fisica e la personalità morale (ex art. 2087 cc). Pertanto, non solo la Società datrice era tenuta all’obbligo di informazione sui rischi ma, anche la Società committente che, avendo la disponibilità del bene, era tenuta a “cooperare con l’appaltatrice nell’attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro, sia all’attività appaltata”.

La Suprema Corte ha infine ribadito che, in assenza di un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, l’eventuale coefficiente colposo del lavoratore nel determinare l'evento è irrilevante sia sotto il profilo causale che sotto quello dell'entità del risarcimento dovuto.

 

GLI ELEMENTI CHE GIUSTIFICANO UN ACCERTAMENTO DI VALORE NELLE COMPRAVENDITE IMMOBILIARI NON POSSONO ESSERE BASATI SUI SOLI SCOSTAMENTI DAI VALORI O.M.I.

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA 36258 del 23/11/2021

La Corte di Cassazione ha ribadito che gli elementi posti alla base di un accertamento di valore nelle compravendite immobiliari non possono limitarsi allo scostamento del valore dichiarato in atto rispetto ai valori rilevati dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare.

Il caso in esame inerisce un accertamento di valore eseguito su di un atto di compravendita riguardante un immobile in Roma, che aveva rideterminato il calcolo delle imposte di registro sul trasferimento, aumentandolo dell’80%.

Ricevuto il provvedimento accertativo, il contribuente aveva proceduto all’impugnazione innanzi la Commissione Tributaria Provinciale, che aveva accolto le doglianze del ricorrente, riconoscendo nello scostamento dai valori rilevati dall’OMI l’unica motivazione dell’atto, e quindi annullando l’atto impositivo.

La Commissione Tributaria Regionale del Lazio, impulsata dall’Agenzia delle Entrate, aveva riformato la decisione del Giudice di prime cure, rideterminando però il valore di trasferimento nella misura del 30%.

Il contribuente ricorreva quindi in Cassazione per vedere riconosciute le proprie ragioni, ribadendo che, in base a perizie e copiosa documentazione già allegata nei precedenti gradi di giudizio, l’Agenzia delle Entrate errava nel considerare come unica indicazione le valutazioni del Mercato Immobiliare, non avendo effettuato una puntuale analisi delle condizioni e caratteristiche dell’immobile oggetto di compravendita.

Gli Ermellini ritengono fondate le doglianze della ricorrente. Invero, come da consolidata giurisprudenza, "In tema di imposta di Corte di Cassazione l'avviso di liquidazione non può essere fondato esclusivamente sullo scostamento tra il corrispettivo dichiarato nell’atto di compravendita ed il valore del bene risultante delle quotazioni OMI pubblicate sul sito web dell'Agenzia delle Entrate, atteso che queste non costituiscono fonte di prova del valore venale in comune commercio, il quale può variare in funzione di molteplici parametri (quali l'ubicazione, la superficie, la collocazione nello strumento urbanistico), limitandosi a fornire indicazioni di massima e dovendo, invece, l'accertamento essere fondato su presunzioni gravi, precise e concordanti" (Cass. Sez. 5, n. 21813 del 2018).

In definitiva, la Corte di Cassazione non ha riconosciuto nell’atto impugnato requisiti di precisione e gravità tali da contrastare le conclusioni e valutazioni a cui invece addiveniva il contribuente con il deposito di documentazione e rilievi di parte, inclusa una relazione del Municipio II del Comune di Roma, comprovanti tra l’altro le caratteristiche intrinseche dell’unità immobiliare (seminterrato) e le effettive dimensioni.

In conclusione, la ragione dell’accoglimento del ricorso del contribuente è da ricercare nella esclusività dell’impianto presuntivo dell’atto di accertamento nella comparazione di valori immobiliari OMI, e dalla conclamata carenza di azioni accertative inequivocabili da parte dell’Agenzia delle Entrate.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

Condividi:

Modificato: 6 Dicembre 2021