5 Dicembre 2022

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

L’ASSICURAZIONE RC GARANTISCE IL PROFESSIONISTA ANCHE PER LE SPESE DI LITE CHE L’ASSICURATO È CONDANNATO A PAGARE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 29926 DEL 13 OTTOBRE 2022

La Corte di Cassazione, con la sentenza n.29926 del 13/10/2022, ha statuito che l'assicurazione della responsabilità civile copre il professionista anche sulle spese di lite che l'assicurato è condannato a pagare al cliente nella causa persa per l'inadempimento nella prestazione che ha danneggiato l'assistito, con l'unico limite per le spese di soccombenza costituito dal massimale di polizza, mentre l'obbligo di manleva della compagnia non può essere ridotto soltanto perché il professionista si fa difendere da un legale di fiducia e non dall'avvocato indicato dall'assicurazione.

Nel caso di specie, i Giudici di piazza Cavour, hanno accolto le doglianze di un odontoiatra manlevato dall'assicurazione nel risarcimento al cliente per gli errori compiuti nelle cure della paziente, sul rilievo che l'assicurato avrebbe violato l'obbligo di buona fede e correttezza ex artt. 1175 e 1375 cc avvalendosi di un avvocato di fiducia e non del legale designato dalla compagnia, nonostante il patto di gestione della lite contenuto nel contratto.

Con la sentenza de qua, gli Ermellini, hanno confermato che l'obbligo di rimborso delle spese di lite a carico dell'assicurazione sorge direttamente dal contratto soltanto perché l'assicurato è stato costretto ad affrontare una controversia per una questione che rientra nella garanzia della polizza e il tutto a prescindere dal fatto che la compagnia abbia o meno sostenuto il cliente oppure abbia aderito o no alle ragioni dell'assicurato, in quanto la manleva scatta nei limiti dell'articolo 1917 cc.

In nuce, per la S.C., l'assicuratore è tenuto, secondo l'impegno contrattualmente assunto o comunque nei limiti di cui all'art. 1917, c.3 c.c., a rimborsare le spese di lite sostenute dall'assicurato anche allorquando non abbia aderito alle ragioni di quest'ultimo e la presenza in giudizio in proprio del medesimo assicurato non sia dipesa dalla posizione difensiva dell'assicurazione

NULLO IL LICENZIAMENTO DELLA CUOCA CHE SI RIFIUTA DI SERVIRE LA COLAZIONE IN CLASSE

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 30543/2022 DEL 18 OTTOBRE 2022

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 30543 del 18 ottobre 2022, ha sancito la nullità del licenziamento intimato alla dipendente che si rifiuti di svolgere  prestazioni inferiori e non pertinenti alla sua qualifica. Nel caso in trattazione, infatti, una cuoca dipendente di una società specializzata nella produzione di pasti per la ristorazione collettiva, proponeva domanda per la declaratoria di illegittimità del licenziamento comminato per avere illegittimamente rifiutato mansioni afferenti alla sua qualifica. Nello specifico, le veniva contestato di essersi rifiutata di portare le colazioni in classe, tenendo un comportamento reiterato e recidivo e sufficiente, secondo la società, a legittimare il suo allontanamento. I Giudici di merito, sottolineando che la lavoratrice era stata assunta come cuoca e che, come tale, era tenuta all'approntamento dei pasti relativi agli alunni, nonché a tutte le attività preesistenti e successive indispensabili a consentire la preparazione e l'assunzione dei cibi, accoglieva il ricorso per insussistenza del fatto e dichiarava illegittimo il licenziamento.

Secondo i Giudici d’Appello portare le colazioni in classe non era catalogabile come compito spettante alla lavoratrice, né rientrava tra i compiti propri della sua qualifica la distribuzione delle merende nelle classi, trattandosi di compiti esecutivi di livello inferiore. I Giudici di secondo grado, inoltre, sottolineavano che la lavoratrice si era sì rifiutata di distribuire le merende nelle classi, ma non risultava che le fosse stato impartito un ordine specifico in tal senso, né che in quelle occasioni avesse opposto un rifiuto alle sollecitazioni verbali dei referenti aziendali, sicché non poteva parlarsi di pervicace atteggiamento di insubordinazione a fronte di ripetuti richiami della lavoratrice, la quale aveva cercato un confronto con i responsabili aziendali per una soluzione di tipo organizzativo. La Corte, quindi, riteneva il rifiuto di eseguire le prestazioni conforme a buona fede: alla declaratoria di illegittimità del licenziamento faceva seguire la reintegra e, ex art. 18, comma 4, Statuto dei lavoratori, il risarcimento dei danni commisurato a dodici mensilità, in ragione del fattore temporale (essendo decorsi più di tredici mesi dal licenziamento alla reintegrazione).

Avverso tale sentenza la società datrice proponeva ricorso in Cassazione deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2104, 2086, 1460 e 1375 c.c., dell’art. 41 della Costituzione e dell’art. 192 CCNL turismo pubblici esercizi. Anche i Giudici Supremi riconoscevano la giustezza della condotta tenuta dalla lavoratrice: acclarato che la lavoratrice si era rifiutata di consegnare le merende in classe, per gli ermellini era palese la proporzionalità e la conformità a buonafede dell'opposizione della lavoratrice allo svolgimento di prestazioni inferiori e non pertinenti alla sua qualifica. Ciò consentiva di ritenere la condotta contestata “priva del carattere di illiceità disciplinare che connota il licenziamento”.

LEGITTIMA IL REATO DI DICHIARAZIONE INFEDELE L'OMISSIONE DI REDDITI DERIVANTI DALLA RICEZIONE DI SOMME DA SOCIETA' PARTECIPATE SE LE STESSE NON SONO PERFETTAMENTE QUALIFICATE COME RESTITUZIONE DI FINANZIAMENTI.

CORTE DI CASSAZIONE – SEZ. PENALE – SENTENZA N.39766 DEL 20 OTTOBRE 2022.

La Corte di Cassazione – Sez. penale – sentenza n°39766 del 20 ottobre 2022 – ha statuito che il reato ex art. 4, D.Lgs. n°74/2000 (id: dichiarazione infedele) sussiste anche nell'ipotesi di mancata indicazione nella dichiarazione dei redditi di elementi attivi (id: somme ricevute) provenienti da società partecipate che si qualificano redditi di capitale allorquando non risulti provata la diversa natura di restituzione di finanziamenti.

Nel caso de quo, la Corte d'Appello di Firenze aveva parzialmente riformato la sentenza  del Tribunale della stessa città con la quale un contribuente  era stato condannato alla pena di un anno e sei mesi di reclusione in relazione al reato di infedele dichiarazione, per aver omesso di indicare nella dichiarazione Irpef elementi attivi soggetti a imposta, in relazione ad ingenti  somme ricevute da una società della quale era socio con una quota pari al 98% del capitale.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il contribuente duolendosi per l'errata applicazione della norma, nonché in relazione al vizio di motivazione in ordine alla qualificazione di redditi di capitale in relazione a somme che, invero ed almeno in parte, erano state rimborsate dalla società a titolo di restituzione di finanziamenti precedentemente effettuati.

Orbene, la Suprema Corte ha respinto il ricorso ribadendo le ragioni addotte dai giudici di merito che avevano evidenziato la mancanza di elementi certi sia in ordine alla esecuzione di finanziamenti da parte del contribuente alla S.r.l., sia alla qualificabilità delle somme da questa corrisposte allo stesso contribuente come restituzione di tali asseriti finanziamenti, sottolineando la mancanza della contabilità di detta società, mancanza che non aveva consentito di qualificare i movimenti di denaro tra il contribuente e la società dallo stesso amministrata e di cui deteneva il 98% delle quote, evidenziando, invero,  i numerosi passaggi di denaro che, in assenza di elementi contabili circa la situazione finanziaria della società e la prova del perfezionamento di negozi di finanziamento soci, non potevano essere qualificati come finanziamenti soci e rimborsi di detti finanziamenti.

Da ultimo, hanno concluso gli Ermellini, l'erogazione di somme che, a vario titolo, i soci effettuano alle società da loro partecipate, può avvenire a titolo di mutuo oppure di apporto del socio al patrimonio della società. La qualificazione, nell'uno o nell'altro senso, dipende dall'esame della volontà negoziale delle parti, e la relativa prova, di cui è onerato il socio attore in restituzione, deve trarsi dal modo in cui il rapporto è stato attuato in concreto, dalle finalità pratiche cui esso appare essere diretto e dagli interessi che vi sono sottesi, dovendosi, inoltre, avere riguardo, in mancanza di una chiara manifestazione di volontà, alla qualificazione che i versamenti hanno ricevuto nel bilancio, da reputarsi determinante per stabilire se si tratti di finanziamento o di conferimento, in considerazione della soggezione del bilancio all'approvazione dei soci.

Nella fattispecie in mancanza di elementi contabili che qualificassero la restituzione del finanziamento socio ovvero di distribuzione di utili (occulti), risultava legittima la riconducibilità delle somme ad elementi attivi non dichiarati.

L’ALTERAZIONE DEI DISPOSITIVI DI SICUREZZA SUL LAVORO EQUIVALE AD UNA LORO RIMOZIONE E DETERMINA RESPONSABILITA’ PENALE DEL DATORE

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 40187 DEL 25 OTTOBRE 2022

La Corte di Cassazione – I Sezione Penale -, sentenza n° 40187 del 25 ottobre 2022, ha statuito che la manomissione del disco cronotachigrafo a bordo dei mezzi di autotrasporto equivale a rimozione delle cautele contro infortuni sul lavoro e, pertanto, è ascrivibile al reato di cui all’articolo 437 del codice penale.

La sentenza in oggetto è frutto dell’azione giudiziaria proposta da 14 autisti avverso il proprio datore di lavoro che, mediante l’utilizzo di un magnete, aveva compromesso il corretto funzionamento dell’apparecchio cronotachigrafo di bordo dei mezzi di trasporto, impedendo così la registrazione della velocità dei veicoli, dei tempi di guida e di sosta.

Secondo la Corte, tale condotta non solo consentiva ai dipendenti la guida degli articolati per un numero di ore superiore a quello di legge, ma determinava, peraltro, un'incidenza sui periodi di riposo dei conducenti dei veicoli e, quindi, un maggior rischio di causare incidenti, a danno della propria incolumità e della sicurezza pubblica.

Su tali presupposti, dunque, pur essendo intervenuta la prescrizione con estinzione del reato, i Giudici di Piazza Cavour hanno sancito il principio secondo cui il datore di lavoro è perseguibile ex art. 437 c. p. con la reclusione da sei mesi a cinque anni, qualora adotti degli accorgimenti volti a inficiare il corretto funzionamento di dispositivi destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro.

NEI CONFRONTI DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA IL RECESSO DI UN SOCIO DA UNA SOCIETA’ DI PERSONE NON RILEVA AI FINI DELLA DEFINIZIONE DI UN ACCERTAMENTO E NON RILEVA AI FINI DELLA CHIAMATA IN GIUDIZIO DEI RECEDENTI.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA 31881 del 27/10/2022

La Corte di Cassazione rileva che il difetto di pubblicità dell’iscrizione nel Registro delle Imprese del recesso dei soci di una società di persone non è rilevante nei confronti dell’Amministrazione Finanziaria al fine della definizione di un accertamento, e non rileva ai fini della chiamata in giudizio dei recedenti.

La fattispecie che viene sottoposta al vaglio della Corte riguarda una società oggetto di avviso di accertamento, che prima del termine del periodo d’imposta oggetto di rettifica (il 2006), aveva visto due dei tre soci comunicare al socio accomandatario il recesso dalla società (nel mese di novembre 2005).

Il socio accomandatario, rimasto unico socio, aveva visto rettificare la propria dichiarazione per la quota totale della partecipazione, ma aveva fatto rilevare, in sede di ricorso, che i soci recedenti non avevano esperito le pratiche di variazione presso il Registro delle Imprese, e pertanto riteneva che l’avergli attribuito interamente il maggior reddito accertato derivasse da un atto illegittimo, dal momento che non erano state espletate tutte le necessarie procedure pubblicitarie.

Ma già i precedenti gradi di giudizio avevano visto il ricorrente soccombere, che non ritenevano la tardiva registrazione delle variazioni della compagine sociale idonee a determinare vizi di notifica per carenza di litisconsorzio necessario (che deve essere esperito nei confronti di tutti i soci) ed anche la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

In effetti, spiega la Corte, “il recesso del socio da una società di persone è atto unilaterale recettizio (vedi Cass. n.5836/13); una volta comunicato esso è efficace nei confronti degli altri soci, mentre, ai sensi dell’art.2290 cod. civ., non è opponibile ai terzi, che lo abbiano ignorato senza colpa, nel caso in cui non abbia avuto adeguata pubblicità con mezzi idonei.”

Per quanto riguarda i rapporti con il fisco, l’Ufficio accertatore – secondo gli Ermellini – ha ben operato, giacché, preso atto del recesso del 2005, poteva operare per l’anno d’imposte 2006 nei confronti dell’unico socio superstite senza nulla pretendere dai soci receduti nel 2005 e senza che fosse necessario alcun contraddittorio litisconsortile.

Nella specie, infatti, è indubitabile che l’avviso di accertamento impugnato abbia tenuto conto dell’avvenuto recesso dei soci accomandanti ed abbia rivolto la pretesa tributaria nei confronti di chi risultava ancora unico socio accomandatario, che era stato messo a conoscenza del recesso dei soci, pur se tali modifiche non risultavano ancora annotate presso il Registro delle Imprese.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino.

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Modificato: 5 Dicembre 2022