12 Dicembre 2022

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

LA CHIUSURA DELLA SEDE DELL’AZIENDA CHE HA NELL’IMMOBILE NON DÀ DIRITTO ALLO SCIOGLIMENTO DEL CONTRATTO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 26618 DEL 9 SETTEMBRE 2022

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.26618 del 9 settembre 2022, ha statuito che il recesso anticipato dalla locazione commerciale è sempre condizionato, infatti l'azienda inquilina che chiude la sede nell'immobile commerciale non ottiene lo scioglimento del contratto, rischiando non soltanto di pagare i canoni pattuiti fino alla scadenza naturale, ma anche che il contratto si rinnovi in automatico con l'adempimento dei relativi e più onerosi obblighi. Pertanto, al conduttore non basta comunicare al locatore la fine dell'attività nel locale per recedere anzitempo dal contratto, in quanto la liberazione anticipata dalla locazione per uso non abitativo può avvenire soltanto per il “grave motivo” previsto dall'art. 27, ultimo comma, della Legge 392/78, vale a dire un evento sopravvenuto alla costituzione del rapporto, estraneo alla volontà del conduttore e tale da rendere la prosecuzione troppo gravosa per quest'ultimo.

Il caso di specie riguarda una società conduttrice che aveva annunciato di voler recedere dalla locazione per “cessazione dell'attività” nei locali, parimenti contestata dal locatore con richiesta di riconoscimento dell'illegittimità del recesso e che la conduttrice fosse condannata ad adempiere le obbligazioni derivanti dal contratto, da ritenersi rinnovato in automatico per nove anni.

Con l’ordinanza de qua, i Giudici di piazza Cavour, hanno evidenziato che il recesso anticipato deve essere collegato a fattori obiettivi e indipendenti dalla volontà del conduttore e non a valutazioni soggettive di quest'ultimo, e quindi spettava alla società inquilina provare la sussistenza dei gravi motivi richiesti per legittimare la liberazione anticipata dell'immobile.

In nuce, per la S.C., la raccomandata spedita dalla conduttrice non può essere sufficiente a determinare la cessazione anticipata del rapporto, perché non risultano specificati dalla società inquilina i gravi motivi richiesti dalla Legge n.392/78, in tema di immobili urbani adibiti a un uso diverso da quello di abitazione e soltanto avvenimenti sopravvenuti alla costituzione del rapporto di locazione possono giustificare la liberazione anticipata dal vincolo ai sensi dell'art. 27, ultimo comma, ma deve trattarsi di circostanze imprevedibili, che esulano dalla volontà del conduttore.

IL DATORE DI LAVORO È L’UNICO LEGITTIMATO A RICHIEDERE ALL’INPS LA RESTITUZIONE DELLE TRATTENUTE PREVIDENZIALI INDEBITE EFFETTUATE.

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 31508 DEL 25 OTTOBRE 2022

La Corte di Cassazione, ordinanza n° 31508 del 25 ottobre 2022, ha statuito che nelle ipotesi di indebito contributivo (versamento dei contributi oltre il massimale), il datore di lavoro è l’unico legittimato all’azione di ripetizione nei confronti dell’Ente, anche con riguardo alla quota dei lavoratori, mentre il lavoratore che abbia subito l’indebita trattenuta può agire nei confronti del datore di lavoro che ha eseguito la trattenuta stessa.

L’ordinanza scaturisce dalle trattenute – non dovute – ma operate per mancata applicazione del massimale contributivo ad opera della Deutsche Bank a discapito dell’ex-dirigente per l’intera durata del rapporto di lavoro, vale a dire dal 2002 al 2012.

Per i Giudici di Piazza Cavour il credito suddetto ha natura retributiva poiché si configura quale differenza della retribuzione sicché, da un lato, ad esso si applicano la prescrizione quinquennale ex art. 2948 n. 4 c.c. e l’art. 429 c.p.c. in materia di interessi e rivalutazione e, dall’altro, esso può essere fatto valere indipendentemente dall’avvenuto rimborso in favore del datore di lavoro dei contributi indebitamente versati.

L’ONERE PROBATORIO GRAVANTE IN GIUDIZIO SULL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA -COME RIBADITO CON LEGGE N°130/2022 – NON STABILISCE UN ONERE DIVERSO O PIU’ GRAVOSO RISPETTO AI PRINCIPI GIA’ VIGENTI IN MATERIA

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 31878 DEL 27 OTTOBRE 2022.

La Corte di Cassazione – ordinanza n°31878 del 27 ottobre 2022 – ha confermato, in tema di onere della prova a carico dell’Amministrazione Finanziaria, che il comma 5 bis dell’art. 7, D.Lgs. n°546/1992 (introdotto dall’art. 6 della Legge n°130/2022) non comporta un onere più gravoso in giudizio sull’A.F. rispetto ai principi già vigenti in materia.

Nel caso de quo, con p.v.c. redatto dalla G.d.F. era stato constatato che la società contribuente, per il tramite di una ditta individuale, prestanome di un terzo, gestore di fatto, aveva ceduto gasolio agricolo verso soggetti non aventi titolo a riceverne. In particolare, la fattispecie era stata inquadrata nel novero delle operazioni soggettivamente inesistenti di tipo triangolare. La CTR della Calabria, aveva rigettato l'appello dell'Ufficio contro la decisione della Commissione tributaria provinciale di Crotone constatando che gli elementi evidenziati dall'Ufficio non erano sufficienti a dimostrare la consapevolezza in capo alla contribuente dell'operazione fraudolenta, anzi gli adempimenti effettuati dalla società nei rapporti con la ditta individuale, non contestati dall'amministrazione finanziaria, erano inconciliabili con la volontà di porre in essere l'evasione fiscale.

Non dello stesso avviso l’Agenzia delle Entrate che ha adito la Suprema Corte affermando che il giudice di merito, invero, aveva violato i principi in tema di onere probatorio e prova presuntiva, valorizzando mere affermazioni della contribuente e, viceversa, trascurando l’intero quadro indiziario fornito dall’Ufficio. In materia di Iva, ha fatto constatare l’A.d.E. – nelle ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti di tipo triangolare – l'onere della prova dell'amministrazione può esaurirsi nella dimostrazione che il soggetto interposto è privo delle dotazioni necessarie all'esecuzione della prestazione, mentre il contribuente deve provare che non sapeva, o non avrebbe potuto sapere, con l'ordinaria diligenza, dell'evasione o della frode posta in essere dal cedente.

Orbene, la Suprema Corte ha accolto il ricorso con rinvio alla CGT di II grado in diversa composizione, specificando che il Decreto Legislativo n°546 del 1992, art. 7, comma 5 bis, introdotto con la L. n°130 del 2022, art. 6, ha ribadito, in maniera circostanziata, l'onere probatorio gravante in giudizio sull'amministrazione finanziaria in ordine alle violazioni contestate al contribuente, per le quali, come nel caso di specie, non vi siano presunzioni legali che comportino l'inversione dell'onere probatorio.

Pertanto, hanno concluso gli Ermellini, la nuova formulazione legislativa, nel prevedere che "L'amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l'atto impugnato. Il Giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l'atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l'irrogazione delle sanzioni" non stabilisce un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all'istruttoria dibattimentale un ruolo centrale.

LEGITTIMO IL CAMBIO DI MANSIONE PER TUTELARE LA DIPENDENTE DAL CLAMORE MEDIATICO

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA N. 32423/2022 DEL 3 NOVEMBRE 2022

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 32423 del 3 novembre 2022, ha stabilito che non può ritenersi illecito demansionamento il cambio di mansioni di una dipendente del Comune, inquadrata come agente di Polizia municipale, effettuato per tenerla lontano dai clamori mediatici provocati dall'arresto del marito per una vicenda di droga.

Nel caso in commento, un’agente di polizia municipale, dipendente del Comune, proponeva ricorso per accertare la dequalificazione e il demansionamento improvvisamente subiti, a suo dire, quale effetto dell'arresto del marito per una vicenda di droga, cui lei era totalmente estranea. La Corte di Appello, confermando la sentenza di primo grado, rigettava la domanda ritenendo, di conseguenza, privo di fondamento anche il risarcimento del danno preteso dalla lavoratrice. In particolare, i Giudici d'Appello osservavano che le prove raccolte non consentivano di ravvisare a carico del Comune comportamenti di dequalificazione o di demansionamento, anche in considerazione della circostanza che le attività di piantonamento presso alcuni uffici, contestate dalla donna, erano state svolte per un solo giorno; aggiungevano, inoltre, che il fatto che nel tempo la lavoratrice fosse stata adibita anche a mansioni superiori a quelle di inquadramento non poteva farle acquisire alcun diritto in proposito e dunque l'eventuale riconduzione delle attività al livello suo proprio non poteva considerarsi illegittima. I Giudici escludevano anche l'ipotesi di una condotta mobbizzante, vista l'assenza di prove di un intento vessatorio nelle scelte operate dal Comune e potendosi semmai ritenere che le misure adottate dall'Ente locale servissero a tutelare l'ufficio e la stessa lavoratrice dai clamori mediatici connessi all'arresto del marito. La riassegnazione al servizio viabilità, prassi comune rispetto alle donne agenti allorquando divenivano meno impellenti le ragioni connesse a recenti maternità, inoltre, corrispondeva a quanto richiesto dalla lavoratrice, a riprova di una disposizione datoriale aperta e disponibile. Per la Corte, infine, l'insorgenza di disturbi ansioso-depressivi in capo alla lavoratrice non era da riferirsi a comportamenti illegittimi del Comune, bensì poteva spiegarsi con gli eventi traumatici legati all'arresto del marito ed alle conseguenti difficoltà familiari.

Avverso tale pronuncia, la lavoratrice proponeva ricorso in Cassazione sostenendo che il Comune avesse tenuto una condotta illegittima nei suoi confronti, demansionandola e mettendola ai margini nel contesto lavorativo. La ricorrente sosteneva che i comportamenti del datore di lavoro fossero stati in concreto lesivi della sua dignità di lavoratrice e ciò attraverso l'attribuzione a lei di compiti meno importanti o significativi e che il suo trasferimento era stato motivato da ragioni diverse da quelle proprie di servizio. Lo spostamento ad altre mansioni, inoltre, aveva indotto i colleghi ad ipotizzare il suo personale coinvolgimento nelle vicende del marito e questo, unitamente allo spostamento dal prestigioso servizio interno al Comune e all'impossibilità di ravvisare nell'accaduto una forma di tutela della dipendente, integrava gli estremi del mobbing, senza contare come la determinazione di una situazione lavorativa così stressante avrebbe potuto essere ricondotta addirittura ad un'ipotesi di straining. La Corte Suprema, ritenendo giuridicamente errato l'assunto secondo cui nel valutare il demansionamento non si deve apprezzare la sola equivalenza formale delle mansioni, ma anche l'incidenza dei mutamenti sulla professionalità e sulla personalità del lavoratore, sosteneva che “in ambito di pubblico impiego vale il diverso assetto per cui la normativa assegna rilievo solo al criterio dell'equivalenza formale delle mansioni, con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita”. Di conseguenza, non poteva affermarsi che l'assegnazione della lavoratrice a mansioni diverse, se ricomprese nel medesimo ambito formale riveniente dalla contrattazione collettiva, fosse di per sé comportamento illegittimo o inadempiente. Riguardo alla circostanza tale per cui lo spostamento ad altre mansioni avrebbe fatto pensare ad un suo coinvolgimento nei fatti addebitati al marito, svilendo il rispetto della sua persona, i magistrati osservavano che l'assenza del demansionamento escludeva che si potesse valorizzare tale profilo come ragione di illiceità, né poteva ravvisarsi mobbing essendo emersa la totale assenza di intenzionalità lesiva da parte del Comune.

La lavoratrice, a sostegno della sua tesi, lamentava anche la mancata autorizzazione alla partecipazione ad un seminario il giorno successivo alla diffusione delle notizie riguardanti il marito; secondo i giudici la motivazione addotta dal Comune a giustificazione sia di detto rifiuto che dello spostamento dallo staff del Comandante, come dettata dall'intento di mantenere la lavoratrice lontana dai clamori mediatici, non era da ritenersi illogica, ben potendosi ritenere che il collocamento in una posizione di minore visibilità allontanasse sia la dipendente che il Comando dai medesimi clamori mediatici.

È LEGITTIMA L’ATTRIBUZIONE DEGLI UTILI EXTRA-BILANCIO DI UNA SOCIETA’ COOPERATIVA AI SOCI “TIRANNI”

CORTE DI CASSAZIONE – ORDINANZA 32451 del 03/11/2022

In tema di utili extra-bilancio accertati in capo ad una società cooperativa, è legittima l’azione di recupero dell’Amministrazione Finanziaria in capo ai soci “tiranni” laddove non sia dimostrata la distribuzione agli altri soci.

E’ questa la conclusione a cui perviene la Corte di Cassazione nel trattare un ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso una decisione della Corte di Giustizia Regionale inerente diversi atti di accertamento nei confronti della socia di una cooperativa che, come dimostrato, aveva il completo controllo della cooperativa stessa.

Da controlli effettuati nei confronti di una società cooperativa, erano emersi, a seguito di accertamenti bancari e finanziari, ingenti somme definite utili extrabilancio, e l’Amministrazione Finanziaria, riscontrata la gestione pressoché esclusiva della cooperativa da parte di uno dei soci, unitamente al proprio coniuge, aveva attribuito tali maggiori componenti positivi allo stesso socio, asseritamente percepiti in maniera occulta sulla base della gestione della società.

Nell’ordinanza di cui trattiamo riveste importanza la qualifica che la Corte definisce di “socio tiranno”, ovvero quella condizione per la quale, pur in presenza di una pluralità figurativa di soci, la gestione della società cooperativa è svolta da uno o più soci, sussistendo contemporaneamente l’effettiva estraneità degli altri soci alla gestione della cooperativa stessa.

Si tratta, quindi, ad avviso della Corte, di una situazione di società a ristretta base societaria, e l’accertamento di eventuali utili extra-bilancio derivanti anche dall’attività di controllo dell’Amministrazione Finanziaria, non può avere altro esito che l’attribuzione degli utili ai soci che ne hanno la completa gestione.

Infatti, notano gli Ermellini, nelle società cooperative, “si utilizza più frequentemente l'istituto del ristorno quale modalità tipica di retrocessione dell'eccedenza dei ricavi, rispetto ai costi derivanti dalla gestione mutualistica con addebito diretto al conto economico delle somme relative”…ma nel caso di specie, per diretta ammissione degli accertati e degli altri componenti della compagine sociale, ciò non avveniva, e quindi la Corte considera che “posto, dunque, che per le società cooperative non c’è una distribuzione di utili/dividendi come nelle società di capitali, ma un complesso sistema di accantonamenti/reinvestimenti/ristorni, e considerata le ammissioni della stessa ricorrente circa la sua natura di dominus effettivo della società, unitamente al coniuge, ciò è quanto basta per fondare l’azione fiscale nei confronti della sig.ra Bartolomei, sulla quale gravava l’onere di prova contraria.”.

Per i Giudici di appello invece la presenza di una pluralità di soggetti che costituivano la compagine sociale della cooperativa era condizione sufficiente per escludere l’attribuzione in capo al socio gestore di tali maggiori redditi.

Rinviava quindi la trattazione del ricorso alla Corte di Giustizia Regionale per un nuovo esame della questione.

Ad maiora

IL PRESIDENTE
EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

A cura della Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Edmondo Duraccio, Giusi Acampora, Francesco Capaccio, Pietro di Nono, Fabio Triunfo, Luigi Carbonelli, Rosario D’Aponte e Michela Sequino

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Modificato: 12 Dicembre 2022