14 Novembre 2016

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,

nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

 

Oggi parliamo di………….

 

 

IL REGOLAMENTO INTERNO DELLE COOPERATIVE – EX LEGE N° 142/2001 – NON PUO’ PREVEDERE TRATTAMENTI RETRIBUTIVI INFERIORI AI MINIMI STABILITI DAI CC.CC.NN.LL..

 

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 18422 DEL 20 SETTEMBRE 2016

 

La Corte di Cassazione, sentenza n° 18422 del 20 settembre 2016, ha statuito che il regolamento interno delle cooperative, predisposto in ossequio alla L. n° 142/2001, non può prevedere, per i soci lavoratori, trattamenti economici complessivamente inferiori a quanto previsto dal C.C.N.L. di riferimento.

Nel caso in disamina, due dipendenti di una cooperativa, addetta al servizio di assistenza minori presso l’asilo comunale, adivano la Magistratura al fine di ottenere il pagamento delle differenze retributive maturate a seguito dell’applicazione, da parte della società, di trattamenti retributivi, previsti dal regolamento interno, complessivamente meno favorevoli rispetto alle previsioni del C.C.N.L. di riferimento.

Soccombenti in appello, dopo il pieno soddisfo ottenuto in I° grado, le lavoratrici ricorrevano in Cassazione.

Orbene gli Ermellini, nel ribaltare nuovamente il deliberato, hanno evidenziato che il regolamento interno delle cooperative, stilato nel rispetto della L. n° 142/2001, non può prevedere trattamenti economici in favore dei soci lavoratori che, complessivamente, siano inferiori ai minimi previsti dalla contrattazione collettiva nazionale di riferimento. Pertanto, atteso che nel caso de quo il regolamento interno, intervenendo sui coefficienti orari, prevedeva dei trattamenti economici sfavorevoli nei confronti del prestatore, se rapportati al C.C.N.L., i Giudici dell'Organo di nomofilachia hanno cassato la sentenza, rinviando gli atti alla Corte di Appello per una nuova pronuncia in subiecta materia.

 

LA CONTINUAZIONE SOSTANZIALE DELL'ILLECITO DISCIPLINARE POST-CONTESTAZIONE LEGITTIMA IL LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA.

 

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 22127 DEL 2 NOVEMBRE 2016

 

La Corte di Cassazione, sentenza n° 22127 del 2 novembre 2016, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato in relazione ad assenze ingiustificate protrattesi anche dopo la rituale contestazione disciplinare ex art. 7, legge n° 300/70.

Nel caso in specie, la Corte d'Appello di Venezia aveva confermato la pronuncia resa dal Giudice di prime cure con cui era stata respinta la domanda proposta da un lavoratore, tesa a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa. Il provvedimento espulsivo era stato intimato in ordine alle assenze dal lavoro che il dipendente aveva giustificato in relazione alle vessazioni che asseriva di aver subito.

Il datore di lavoro, con puntuale missiva, aveva contestato le assenze ingiustificate per due giorni dal lavoro e, successivamente, constatato il perdurare delle stesse, aveva intimato, sulla scorta del primo addebito, la sanzione del licenziamento disciplinare.

Per la cassazione di tale pronuncia il lavoratore ha adito la Suprema Corte sostenendo la violazione del principio di immutabilità della contestazione che era riferita soltanto a due giorni di assenza ed alla quale sarebbe normalmente conseguita una mera sanzione di tipo conservativo.

Orbene, i Giudici della Suprema Corte hanno rigettato il ricorso ritenendo prive di pregio le argomentazioni del lavoratore. Invero, i requisiti fondamentali della contestazione, ex art. 7, legge n°300/70, sono individuati nella specificità, immediatezza e immutabilità. Detti requisiti sono volti a garantire il diritto di difesa del lavoratore, altrimenti compromesso. In particolare, il principio della immutabilità della contestazione, hanno continuato gli Ermellini, delimita la materia del contendere nel successivo giudizio, non potendo introdursi fatti nuovi o diversi da quelli inizialmente contestati. Talché, la ratio sottesa a tale requisito consente, come nel caso in specie e fermo restando l’oggetto della contestazione, che mutino solo l’apprezzamento e la valutazione della stessa.

 

IL REATO DI OMESSO VERSAMENTO DI IVA PRESUPPONE L’INVIO DELLA DICHIARAZIONE DA PARTE DEL CONTRIBUENTE.

 

CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE PENALE – SENTENZA N. 38487 DEL 16 SETTEMBRE 2016

 

La Corte di Cassazione – Sezione Penale -, sentenza n° 38487 del 16 settembre 2016, ha statuito che il reato di omesso versamento IVA presuppone che il debito d’imposta risulti dalla dichiarazione annuale presentata dal contribuente. In assenza della dichiarazione stessa l’illecito configurabile è solo quello di omessa dichiarazione, ai sensi dell’articolo 5 del D.Lgs. 74/2000.

IL FATTO

Un imprenditore veniva incriminato per l’omissione del versamento dell’IVA a seguito dell’emissione di false fatture.

Il contribuente in questione veniva condannato sia in primo che in secondo grado.

La difesa proponeva, quindi, ricorso in Cassazione, sostenendo che, in realtà, il reato di omesso versamento dell’IVA non poteva dirsi configurato poiché non risultava presentata la dichiarazione annuale da cui sarebbe dovuta emergere l’imposta dovuta.

All’uopo, è opportuno ricordare che la normativa di riferimento, l’art. 10 ter, D.lgs. 74/2000, come modificato dal D.lgs. 158/2015, dispone quanto segue:

E' punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d'imposta successivo, l'imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per    un ammontare superiore a euro duecentocinquantamila per ciascun periodo d'imposta.”

Orbene, i Giudici di Piazza Cavour, con la sentenza de qua, hanno accolto il ricorso, assolvendo definitivamente l’imprenditore anche dall’omesso versamento IVA perché il fatto non sussiste.

In particolare, i Giudici delle Leggi, rifacendosi al dettato normativo poc’anzi evidenziato, hanno statuito che il presupposto per la configurazione del reato di omesso versamento dell'IVA è non solo il superamento della soglia penale (id. importo superiore a 250.000,00 euro) ma, soprattutto che sia stata presentata una dichiarazione IVA, da cui risulti l’imposta dovuta e poi non versata. Se quest’ultima non è stata presentata dal contribuente, l’illecito configurabile è solo quello di omessa dichiarazione ex articolo 5 del D.Lgs. 74/2000.

Nel caso in specie, non solo l’IVA dovuta per l’anno in contestazione era sotto soglia ma, soprattutto non risultava presentata la relativa dichiarazione. Mancava così un elemento essenziale del reato che, pertanto, non poteva dirsi sussistente.

Da qui, l’annullamento della sentenza di condanna dell’imprenditore e relativa assoluzione con formula piena, perché il fatto non sussiste.

In nuce, in base alla novella disposizione normativa, gli elementi necessari per la configurazione del delitto in esame sono:

  • presentazione della dichiarazione IVA da cui risulti indicato un saldo IVA di importo superiore a 250.000,00 euro;
  • mancato versamento entro il termine di versamento dell'acconto relativo al periodo di imposta successivo.

 

NEL TRASFERIMENTO DI ATTIVITA’ IL VALORE IMPONIBILE SI RICAVA DALL’ATTO DI CESSIONE.

 

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 22221 DEL 3 NOVEMBRE 2016

 

La Corte di Cassazione, sentenza n° 22221 del 3 novembre 2016, ha statuito che per la cessione di immobili e di aziende, nonché per la costituzione ed il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l’esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile, da parte dell’Agenzia delle Entrate, esclusivamente sulla base del valore, anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro.

Nel caso di specie, i Giudici di Piazza Cavour hanno respinto le doglianze dell’Agenzia delle Entrate, in una controversia relativa alla cessione, da parte di una S.A.S., dell’attività commerciale di bar e tabaccheria e del relativo immobile d’esercizio.

L’Agenzia delle Entrate aveva, infatti, provveduto a rettificare il reddito di impresa conseguito dalla società e, per diretta conseguenza, quello imputato a ciascun socio, con relativa emissione di avvisi di accertamento, annullati dai Giudici Territoriali, in quanto la cessione di attività si era resa necessaria per i dissidi tra soci e per la grave patologia contratta da uno di essi e gli stessi contribuenti avevano fornito elementi sufficienti a superare la presunzione che il prezzo di vendita dell’azienda corrispondesse al valore venale in comune commercio.

Orbene, nel caso de quo, in mancanza di altri elementi prospettati dall'Ufficio, è valido il corrispettivo dichiarato, in quanto il suo scostamento del 15% con il valore stimato dall'Erario, non andava ad evidenziare un comportamento, palesemente antieconomico, posto in essere dai contribuenti.

Pertanto, per la S.C., la prova nella specie offerta dai contribuenti, risulta essere idonea a disattendere la presunzione rivendicata dall’Agenzia delle Entrate, ritenuta la concludenza probatoria delle circostanze impeditive illustrate.

 

RITORSIVO IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE PRECEDENTEMENTE DEMANSIONATO.

 

CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 22323 DEL 3 NOVEMBRE 2016

 

La Corte di Cassazione, sentenza n° 22323 del 3 novembre 2016, ha ritenuto discriminatorio il licenziamento di un dipendente per ragioni organizzative, precedentemente demansionato.

Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Reggio Calabria, in riforma della sentenza di primo grado, che aveva escluso il carattere ritorsivo e concesso al lavoratore la sola tutela obbligatoria, riteneva invece illegittimo il licenziamento in quanto discriminatorio con diritto alla reintegra nel posto di lavoro ed alle retribuzioni globali di fatto maturate dal licenziamento all'effettiva reintegra.

I Giudici dell'Appello giungevano a tale conclusione anche sulla base di una precedente ordinanza dell’08/01/2010, con la quale veniva intimato al datore di lavoro di assegnare nuovamente al lavoratore la qualifica e mansioni di direttore, o comunque, mansioni inerenti il profilo professionale di quadro. Il successivo 29/01/2010 il lavoratore veniva licenziato per addotte ragioni organizzative.   

Nel caso de quo, gli Ermellini, in linea con i Giudici di merito, hanno rammentato che in materia di licenziamenti discriminatori l'interpretazione da adottare è estensiva, comprendendo in essa anche le ipotesi di licenziamenti aventi quale unica ragione una reazione ingiusta ed arbitraria ad un legittimo comportamento del lavoratore. 

In conclusione, i Supremi Giudici spiegano che, affinché si possa avere una presunzione giuridicamente valida è sufficiente che, fra un fatto noto ed uno ignoto, il fatto da provare (fatto ignoto) si desuma quale ragionevole e possibile conseguenza di quello noto secondo criteri di normalità.

 

 

Ad maiora

 

       IL PRESIDENTE

                                                               EDMONDO DURACCIO

 

 

 

 

 

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

 

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

 

 

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 14 Novembre 2016