21 Novembre 2016

Gentili Colleghe e Cari Colleghi,
nell’ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli…….

Oggi parliamo di………….

COEFFICIENTE ISTAT PER T.F.R. MESE DI OTTOBRE 2016

E’ stato reso noto l’indice Istat ed il coefficiente per la rivalutazione del T.F.R. relativo al mese di Ottobre 2016. Il coefficiente di rivalutazione T.F.R. Ottobre 2016 è pari a 1,320093 e l’indice Istat è 100,00.

L'INDENNITA' OMNICOMPRENSIVA PREVISTA PER I CASI DI ILLEGITTIMA APPOSIZIONE DEL TERMINE – EX LEGE N° 183/2010 – ASSUME UNA CHIARA VALENZA SANZIONATORIA ESSENDO CONSEGUENTEMENTE DOVUTA ANCHE NEL CASO IN CUI IL LAVORATORE NON ABBIA PATITO ALCUN DANNO MATERIALE.
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 22124 DEL 2 NOVEMBRE 2016

La Corte di Cassazione, sentenza n° 22124 del 2 novembre 2016, ha statuito che la legge n° 183 del 4 novembre 2010 ha voluto prevedere, in materia di illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro, una specifica indennità, relativa al periodo fra la messa in mora da parte del dipendente ed il ripristino del rapporto di lavoro, con natura prettamente sanzionatoria tant'è che la stessa deve essere corrisposta anche nel caso in cui il prestatore non abbia subito danni, ad esempio perché prontamente rioccupatosi.

Nel caso in disamina, un lavoratore veniva assunto con contratto a tempo determinato ma la sottoscrizione dello stesso avveniva successivamente al materiale “avvio” del rapporto di lavoro. Dopo alcune proroghe, l'azienda datrice di lavoro preavvisava il dipendente che, alla scadenza, il contratto non sarebbe stato ulteriormente prorogato.

Il subordinato adiva la Magistratura.

Il datore di lavoro ricorreva in Cassazione avverso le sentenze di merito che avallavano, seppur in diversa misura, le richieste del prestatore.

Orbene, gli Ermellini, nel confermare l'illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, in primis, hanno evidenziato che la legge n° 183/2010 deve essere applicata anche ai giudizi pendenti alla data della sua entrata in vigore. Inoltre, l'indennità omnicomprensiva, prevista dalla prefata norma, assume una chiara valenza sanzionatoria essendo, conseguentemente, dovuta anche nel caso (estremo) di assenza di qualsivoglia danno per il prestatore perché, ad esempio, lo stesso ha prontamente reperito altra occupazione lavorativa.

Pertanto, atteso che nel caso de quo il termine apposto al contratto di lavoro era da ritenersi illegittimo, in quanto inserito nel contratto solo dopo alcuni giorni dall'avvio della prestazione lavorativa, i Giudici di Piazza Cavour hanno rinviato gli atti alla Corte territoriale per un nuovo deliberato che tenesse conto della sopravvenienza della L. n° 183/2010 e della corretta quantificazione dell'indennità risarcitoria.

LA RICHIESTA DI ACCESSO AGLI ATTI DA PARTE DEL LAVORATORE DESTINATARIO DI ADDEBITO DISCIPLINARE PUO' ESSERE DISATTESA SE LA CONTESTAZIONE E' ADEGUATAMENTE SPECIFICA.   
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 20814 DEL 14 OTTOBRE 2016

La Corte di Cassazione, sentenza n° 20814 del 14 ottobre 2016, ha statuito che la contestazione disciplinare, se adeguatamente specifica, non consente al lavoratore l'accesso agli atti o alla visione del materiale repertato.

Nel caso in specie, una lavoratrice, nella sua qualità di infermiera presso una casa di cura, era stata licenziata per giusta causa per aver omesso la somministrazione, registrata come effettuata nelle schede di terapia degli ospiti redatte dalla medesima, dei farmaci agli stessi prescritti, essendo stati questi rinvenuti tra i rifiuti.

La lavoratrice aveva adito il Tribunale al fine di ottenere pronuncia di illegittimità del licenziamento disciplinare per violazione del diritto di difesa essendo stato negato, dalla società datrice, l'accesso ai luoghi, alla visione del materiale repertato ed alle schede dei pazienti interessati.

Soccombente nei primi due gradi del giudizio, l'infermiera ha adito la Suprema Corte per violazione e falsa applicazione dell'art. 7 Legge 300/70.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso ed ha specificato che gli obblighi di correttezza e buona fede impongono, in via generale, al datore di lavoro di offrire in consultazione all'incolpato che ne faccia richiesta i documenti aziendali su cui si basa la contestazione, laddove l'esame degli stessi sia necessario per predisporre un'adeguata difesa.

Orbene, nel caso in specie, considerato che l'addebito contestato si concretava nella precisa indicazione di condotte inadempienti, puntualmente specificate nella contestazione di abbrivio al procedimento disciplinare, non risultava leso il diritto alla difesa della lavoratrice. Per contro, l'onere della prova, cui era onerata la società in giudizio, garantiva a priori il diritto alla difesa della lavoratrice, tale da rendere ultronea l'ulteriore finalità di richiesta di accesso agli atti.

L’ACCERTAMENTO INDUTTIVO FONDATO SOLO SU ASSERITE MEDIE DI SETTORE, NON SUPPORTATO DA ALTRI DATI ATTENDIBILI, E’ ILLEGITTIMO.
CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA – SENTENZA N. 18662 DEL 23 SETTEMBRE 2016

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria -, sentenza n° 18662 del 23 settembre 2016, ha statuito che è illegittimo l'accertamento induttivo fondato su asserite medie di settore, se l'Amministrazione finanziaria non dimostra l'irragionevolezza dei dati contabili rispetto alla ricostruzione eseguita.

Nel caso in specie, l’Agenzia delle Entrate eseguiva una verifica fiscale nei confronti di un commerciante al dettaglio di abbigliamento, emettendo avviso di accertamento induttivo di maggiori ricavi sul presupposto di un’asserita inattendibilità delle scritture contabili. Più precisamente, l'Ufficio aveva proceduto a ricostruire maggiori ricavi su una diversa percentuale di ricarico.

Il contribuente prontamente ricorreva alla giustizia tributaria contro il suddetto avviso, risultando vincitore in entrambi i giudizi di merito.

In particolare la C.T.R. aveva respinto l’appello dell’Agenzia sul decisivo rilievo che:

  • i verificatori avevano effettuato la ricostruzione dei ricavi senza alcuna distinzione tra le varie categorie di merce;
  • non era comprensibile la modalità di determinazione delle percentuali di ricarico adoperate e sulla loro natura, cioè “se si tratti di percentuali di ricarico minime riscontrate nel medesimo settore merceologico, ovvero da medie di settore”.

Da qui, il ricorso per Cassazione da parte dell’Agenzia delle Entrate.

I Giudici del Palazzaccio hanno preliminarmente ricordato che, in tema di accertamento induttivo dei redditi, "l'Amministrazione finanziaria puòai sensi dell’art.39 D.P.R. n. 600/73fondare il proprio accertamento sia sull'esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio dell'attività svolta, sia sugli studi di settore, nel quale ultimo caso l'Ufficio non è tenuto a verificare tutti i dati richiesti per uno studio generale di settore, potendosi basare anche solo su alcuni elementi ritenuti sintomatici per la ricostruzione del reddito del contribuente" (cfr. ex plurimis Cass. 6389/2014 e Cass.17038/2002).

Ancora, hanno proseguito gli Ermellini, “in caso di contabilità regolarmente tenuta, l'accertamento dei maggiori ricavi d'impresa può essere affidato alla considerazione della difformità della percentuale di ricarico applicata dal contribuente, rispetto a quella mediamente riscontrata nel settore di appartenenza, quando essa raggiunga livelli di abnormità, tali da privare, appunto, la documentazione contabile di ogni attendibilità (cfr. ex plurimis Cass.20201/2010; cfr. 5870/2003).

Pertanto, dovendo l'accertamento analitico induttivo di maggiori ricavi fondarsi su un concorso di indizi gravi, precisi e concordanti, è necessario, indispensabile, che “l’applicazione di percentuali di ricarico postula l'adozione di un criterio che sia:

  • logicamente coerente e congruo con la natura e le caratteristiche dei beni presi in esame;
  • applicato ad un campione di beni scelti in modo appropriato;
  • fondato su una media aritmetica o ponderale, scelta in base alla composizione del campione di beni.

L'adeguatezza del predetto campione di beni e della percentuale di ricarico determinata sono oggetto di sindacato del Giudice di merito.”

In nuce, i Giudici delle Leggi hanno rilevato che, nel caso in specie, era incomprensibile la modalità di determinazione delle percentuali di ricarico, scelta dall’Amministrazione finanziaria e, pertanto, correttamente, il Collegio di appello aveva escluso che da tali differenze potesse discendere l'inattendibilità delle scritture contabili.
Il ricorso dell’Agenzia delle Entrate veniva pertanto respinto.

GLI ASSEGNI EMESSI COSTITUISCONO UNA PROVA NELL’AZIONE DI REVOCATORIA.
CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE CIVILE – SENTENZA N. 23208 DEL 15 NOVEMBRE 2016

La Corte di Cassazione – Terza Sezione Civile -, sentenza n° 23208 del 15 novembre 2016, ha statuito che, ai fini dell’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria non è necessaria la sussistenza di un credito certo, liquido ed esigibile ma è sufficiente una ragione di credito anche solamente eventuale.

Pertanto, divengono rilevanti anche i crediti litigiosi ovvero aventi per oggetto contestazioni non manifestamente fondate. Anche l’art. 2901 C.C., sulle condizioni per esperire l’azione revocatoria in oggetto, prende in considerazione una nozione di credito vaga, comprensiva della ragione e/o aspettativa.

Ne consegue, per la S.C., l’irrilevanza della certezza del fondamento dei relativi fatti costitutivi e ciò coerentemente con la funzione propria dell’azione, che non persegue scopi specificamente restitutori, ma mira a conservare la garanzia generica sul patrimonio del debitore in favore di tutti i creditori, compresi quelli meramente eventuali.

Con la sentenza de qua, viene infatti ritenuto che, ai fini dell’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria, fosse da considerare come sufficiente ragione di credito quella dedotta dal portatore di più assegni bancari emessi dal debitore.

Infatti, per i Giudici di Piazza Cavour, detti titoli costituiscono promesse di pagamento ai sensi dell’art. 1988 del C.C. che invertono l’onere della prova a carico del debitore sull’inesistenza della relativa obbligazione.

IL PRINCIPIO DI IMMEDIATEZZA DEVE ESSERE VALUTATO TENENDO PRESENTE IL TEMPO NECESSARIO PER L’ACCERTAMENTO E LA VALUTAZIONE DEI FATTI CONTESTATI.
CORTE DI CASSAZIONE – SENTENZA N. 22799 DEL 9 NOVEMBRE 2016

La Corte di Cassazione, sentenza n° 22799 del 9 novembre 2016, ha ritenuto legittimo un licenziamento comminato ad una lavoratrice dopo alcuni mesi dal fatto contestato, per lungaggini burocratiche non imputabili al datore di lavoro.

Nel caso in commento, la Corte d'Appello di Torino, in riforma della sentenza di primo grado, aveva ritenuto legittimo il licenziamento comminato ad una lavoratrice assente a due visite mediche di controllo (14 e 19 agosto 2012). L’azienda, inizialmente aveva immediatamente contestato i fatti in data 04/09/2012, seguiti in data 11/09/2012 dalle deduzioni scritte della lavoratrice, per poi comunicare il licenziamento solo in data 01/06/2013. Tale periodo di sospensione, dalla contestazione al provvedimento espulsivo, risultava giustificato dalla necessità di acquisire ulteriori informazioni dalla sede Inps competente, informazioni pervenute soltanto in data 28/02/2013. Inoltre, la società aveva nuovamente invitato la lavoratrice a rendere le giustificazioni alla luce delle informazioni ricevute dall’Inps, ma il 16/05/2013, data fissata dalla stessa lavoratrice, quest’ultima non si presentava all’incontro.    

Nel caso de quo, gli Ermellini, in linea con i Giudici di merito, hanno ricordato  che il principio di immediatezza di un provvedimento o di una contestazione si configura come elemento costitutivo del diritto di recesso, in quanto il decorrere di un lasso di tempo troppo ampio indurrebbe ragionevolmente il lavoratore a ritenere il fatto non grave o, comunque, non meritevole di un procedimento espulsivo. Tale principio di immediatezza va però inteso in senso relativo, cioè di ammettere un maggior intervallo di tempo quando l’accertamento dei fatti lo richiede, le cui valutazioni sulle circostanze giustificatrici spettano al Giudice di merito.  
In conclusione, i Supremi Giudici hanno respinto il ricorso della lavoratrice ritenendo corretto l’iter logico giuridico della Corte d’Appello.

Ad maiora
IL PRESIDENTE

EDMONDO DURACCIO

(*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata.

Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!!

Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo.

Ha collaborato alla redazione il Collega Francesco Pierro

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Modificato: 21 Novembre 2016